Lo spettro del feudalismo torna a incombere. Non tutti i conti sono stati saldati. La gerarchia che vedeva ergersi i signori al di sopra dei vassalli non si è estinta. Il lascito di quei rapporti di potere, così prepotentemente sbilanciati a favore dei primi e a discapito dei secondi, ha superato indenne i secoli grazie al diritto. Oggi ne fanno le spese gli eredi di quei contadini che, centinaia e centinaia di anni fa, accettarono di sottoscrivere accordi con i nobili di un tempo. Le lancette sono ferme al Medioevo e nel gioco delle parti ciascuno è tornato a personificare il ruolo subalterno o dominante che gli avi anzitempo detenevano. I vassalli coi vassalli. I nobili coi nobili. Accade allora nel mondo globalizzato e capitalista che tornino gli eredi dei feudatari a chiedere conto agli eredi dei contadini di quei canoni pattuiti illo tempore. Non è una favola e non avrà un lieto fine, finché il Parlamento non deciderà di occuparsene. Al posto di un quintale di grano oggi si rivendicano migliaia di euro. Che potevano saperne allora i contadini – per la maggior parte analfabeti – che stavano firmando un contratto che non solo li avrebbe vincolati a vita ma avrebbe tenuto sotto scacco anche le generazioni successive? Per denunciare le conseguenze del vuoto normativo che vede gli eredi di quei contadini contrapposti agli eredi dei feudatari, oggi, in Piazza Sant’Apostoli a Roma, il Comitato No Enfiteusi ha indetto una manifestazione, mentre una delegazione tenterà di essere ricevuta a Montecitorio.

Le storie sono tante e coinvolgono l’intera penisola. In Puglia, ad esempio, c’è il caso di San Michele Salentino, poco più di 6mila abitanti, in provincia di Brindisi. A fine Settecento il principe Gerardo Dentice di Frasso fece costruire una masseria nel suo feudo. Suo figlio, Giacomo, con atto notarile in data 4 e 15 agosto 1839 diede in concessione i terreni circostanti ai contadini provenienti dai paesi limitrofi. Da quel momento nacque un villaggio che crebbe nel tempo, fino ad ottenere l’indipendenza dalla vicina San Vito dei Normanni, diventando Comune nel 1928. Gli abitanti non sapevano allora, però, che quel primo documento, quella pietra miliare che aveva dato i natali al borgo, sarebbe diventato a distanza di un secolo un cappio difficile da sciogliere. Con quel contratto i contadini avevano sottoscritto l’enfiteusi, che letteralmente vuol dire «impiantare, innestare».

Avevano accettato di godere di un diritto reale su una cosa altrui: acquisendo il potere di utilizzare il fondo, per metterlo a coltura, si erano impegnati a migliorarlo e a pagare al proprietario un canone periodico in denaro o in natura. Erano diventati enfiteuti e assolvevano al loro obbligo pagando con le derrate, illusi di diventare un giorno proprietari di quelle terre che senza di loro sarebbero rimaste incolte. Non fu un atto di generosità quello dei signori, ma un business che nell’Italia meridionale esercitavano soprattutto i nobili e in quella centro-settentrionale la Chiesa e i Comuni.

Quello che ai contadini non era chiaro è che nella maggior parte dei casi quell’enfiteusi era perpetua. Non si sarebbe mai estinta. La fatica non l’avrebbe riscattata, a meno che non avessero deciso di affrancarsi, pagando chiaramente, perché per l’enfiteusi non era e non è previsto l’usucapione. L’unica cosa che potevano vendere o lasciare in eredità era quel vincolo, la cui origine risale al IV secolo d.C., poi divenuto prassi nel Medioevo e, a parte la parentesi della politica antifeudale napoleonica, è giunto sino a noi nel 1942 attraverso l’articolo 957 e i successivi del titolo IV del libro terzo del codice civile. Si sono susseguite numerose leggi, varie proposte di legge mai approvate e diverse sentenze della Corte costituzionale. Per molti decenni l’enfiteusi non ha gravato sugli enfiteuti, perché a partire dagli anni ’60 la riscossione dei canoni da parte dei proprietari è caduta in disuso. Non era più conveniente, dicono.

Nel frattempo sono state costruite abitazioni, sono nati i borghi. Tutto è cambiato, tranne quel vincolo. Sono cambiati anche i canoni: nel ’74 si stabilì che dovessero corrispondere a quello domenicale, ma tale disposizione venne considerata incostituzionale. Dovevano essere aggiornati «periodicamente mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata con una ragionevole approssimazione la corrispondenza con l’effettiva realtà economica». I proprietari a lungo sono stati silenti, ma le generazioni cambiano e da qualche anno sono spuntati gli eredi dei feudatari a chiedere di saldare il conto.

La notizia dell’esistenza di quel vincolo si è diffusa, tanto che più d’uno ha ripreso ad esigere che venga rispettato. Ma in molti ignorano di aver acquistato o ereditato l’enfiteusi e sono convinti erroneamente, invece, di detenere la proprietà dei beni. Hanno dovuto ricredersi quando d’improvviso hanno ricevuto le richieste di pagamento e poi i decreti ingiuntivi. Occorre pagare. Sul quanto ha dovuto prendere posizione più volte la magistratura con decisioni in molti casi a favore degli enfiteuti, altre a favore dei proprietari. Il vuoto normativo ha creato confusione. C’è chi si appella alla legge del 1966 e poi del 1970: spettano 15 canoni, oltre quello corrente. C’è chi chiede anche le annualità precedenti non pagate. In ballo però non c’è più il grano. Va stabilito il canone. Quanto vale un ettaro di terreno coltivato da generazioni? Ci sono richieste di oltre 600 euro l’ettaro e ci sono anche gli immobili da conteggiare. Il risultato è che per affrancarsi agli enfiteuti si chiede di pagare molto più del valore di mercato.

La questione è molto sentita in Toscana, Abruzzo, Campania, Sicilia e soprattutto nel brindisino, dove infatti nove Comuni e la Provincia hanno deliberato a favore delle richieste del Comitato No Enfiteusi, nato sette anni fa. «L’enfiteusi è un residuo feudale e deve essere eliminato dalle leggi di questa Repubblica. Dato il numero di anni per i quali il canone è stato versato – denuncia il presidente Antonio Chirico – possiamo ritenere di aver pagato nei decenni e molte volte il vero valore del terreno. È ora di abolire una legge schiavista». In paese sono quasi tutti enfiteuti e quasi tutti hanno una sola famiglia da cui affrancarsi, quella degli eredi del principe Dentice di Frasso. Oltre ad aver ereditato i castelli, l’attuale principe Giuliano e i suoi familiari sono proprietari di ogni cosa qui. A loro nome, l’avvocato Antonello Bruno ha richiesto di recente ad alcuni cittadini di pagare i canoni che – si legge – «da tempo non avete ritenuto di corrispondere». Il canone richiesto vale oltre 11 mila euro e, moltiplicato per gli ultimi cinque anni e sommato a quello corrente, ammonta in totale a 67 mila euro. Da corrispondere in 10 giorni. Un salasso. Ci sono poi casi in cui sono i Comuni i proprietari e gli enfiteuti i cittadini. Accade a Martina Franca, in provincia di Taranto, dove riscuotere i canoni metterebbe in subbuglio l’intera comunità, oltre al possibile intervento della Corte dei Conti. Il tacco è costellato di storie affini e risalendo la penisola cambiano gli attori ma non la trama. Come scriveva Verga: «La roba non è di chi l’ha ma di chi la sa fare». C’è chi l’ha fatta così bene da preservarla per i secoli dei secoli.