Corre ogni anno il rischio di non essere visibile come merita la manifestazione “Il jazz italiano per le terre del sisma” (edizione 2020 29 agosto – 6 settembre). Di fatto è compressa tra il clamore mediatico del festival del cinema di Venezia e il limitato interesse per la ricostruzione post-terremoto, una sorta di “rimozione” che affligge il Bel Paese. Tuttavia non è possibile né corretto ignorare una rassegna propositiva e solidale (VI edizione) che nei due giorni conclusivi a L’Aquila ha fatto suonare duecento jazzisti su nove palchi, distribuiti nel centro del capoluogo abruzzese (senza biglietto da pagare ma con l’obbligo della prenotazione). Una città che si sta rialzando, come testimoniano la recente apertura di una sezione del MAXI, il riprendere di attività commerciali, i continui restauri e la candidatura per il 2022 a “capitale italiana della cultura”.

Vari organi di comunicazione (con eccezioni quali i media partner RaiRadio1, la rivista Jazzit e il periodico Left) ignorano ma gli individui no: tra sabato e domenica scorsi, L’Aquila si è riempita di persone, in una dimensione simile, complice il magnifico tempo, alla visionaria prima edizione del 2015 ma con una differenza importante. La riuscita complessiva de “Il jazz italiano per le terre del sisma” avviene nell’estate del Covid-19, dei protocolli, dei (giusti) limiti e dei molti vincoli, della paura da contagio. Eppure, nonostante, tutto, la rassegna ha avuto un pubblico partecipe e disciplinato, presentando uno spettro ampio della policroma ricchezza del jazz italiano, ricordando la tragedia del 2009 – quanto è stato fatto e c’è da fare (soprattutto nelle zone del sisma del 2016) -, ricordando anche i jazzisti italiani scomparsi, celebrando senza retorica la propria storia e comunità, indagando nel presente e nel futuro prossimo.

COSA C’E’ DIETRO a questo flusso di energie sonore e di vite umane, di progettualità e di arte, di musica e di lavoro? “Il jazz italiano per le terre del sisma” continua a esistere per vari fattori materiali, oltreché intellettuali. Intanto l’evento è promosso dal MIBACT e dal comune de L’Aquila (Operazione Restart); gode anche del patrocinio della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Lo sponsor principale è la SIAE (società italiana autori editori) con il contributo del Nuovo IMAIE. Viene concretamente organizzato dalla Federazione il Jazz Italiano (presidente Paolo Fresu, suo direttore artistico fino al 2019) attraverso varie associazioni che la compongono: musicisti (MIDJ), discografici (ADEDJ), club (IJC), didatti (il Jazz Va a Scuola), fotografi (AFIJ) e con la collaborazione fondamentale degli organizzatori di rassegne e festival (I-Jazz) e della Casa del Jazz. Un prodotto, quindi, collettivo. Quest’anno la direzione artistica è divenuta collegiale e il non facile compito è stato ben svolto da Ada Montellanico, Simone Graziano e Luciano Linzi (l’edizione 2021 dovrebbe vedere in azione Rita Marcotulli, Paolo Damiani e Alessandro Fedrigo); dal 2019 i jazzisti non si esibiscono più a titolo gratuito, come è avvenuto per le prime quattro rassegne.

Proviamo, ora, a “entrare” nella musica di queste dense giornate attraverso vari “quadri”. Parliamo di luoghi, tutti altamente simbolici. Forse il più dolente è lo spazio antistante la distrutta Casa dello Studente, dove il gruppo Seacup di Stefano Tamborrino ha suonato alle 12 del 6 settembre, presentando una musica ampiamente scritta per archi e il tenore di Dan Kinzelman, pensosa e sofferta nelle sue campiture. Ma c’è anche la Fontana delle 99 cannelle dove la manifestazione aquilana è iniziata il 5 alle 16, luogo in cui il “bordone” dell’acqua è stato intrecciato dal solo baritono di Dario Cecchini, ora ricco di funk ora finemente “giocoso” con i riverberi di un posto dalla magnifica acustica, valorizzata anche dall’esuberanza stile New Orleans della Crazy Dixie Band (del resto il jazz è nato all’aperto e alle 99 Cannelle è arrivata la Marcia Solidale partita da Camerino il 29 agosto). Tra i vari un altro solo è risuonato nella centrale piazza dei Gesuiti, con due lati restaurati e due ancora terremotati, fra le scritte “Verità per Giulio Regeni” e “L’Aquila risorge”. Qui, nel tardo pomeriggio di domenica, Marco Colonna ha usato i suoi clarinetti per evocare i fili di Maria Lai come gli spiriti di Dolphy, Ayler e del nonno partigiano e ballerino di tango, con una narrazione sonora superba. Altri luoghi del jazz, quasi tutti raggiungibili seguendo l’asse di corso Vittorio Emanuele, sono stati il Parco del Castello, l’auditorium del Parco, l’aula magna del Dipartimento di Scienze Umane, le piazze Chiarino, S.Maria di Paganica, Palazzo. Basilare la piazza del Duomo che ha ospitato i set serali, presentati con garbo, competenza e intelligenza da Piji Siciliani e Fiorenza Gherardi.

Omaggio a Le Noci, foto di Pino Ninfa

QUI POSSIAMO svelare altri “quadri” che riguardano i ricordi, i premi, il passato e il futuro. Il palco della coreografica piazza del Duomo (dove vi invito a visitare la Cappella della Memoria in S.Maria del Suffragio, dedicata agli scomparsi del 2009) ha visto, tra vari recital, i ricordi di tre jazzisti italiani morti prematuramente: il sassofonista Carlo Conti, il pianista Gianni Lenoci e il trombettista Aldo Bassi. Un’ampia suite del romano “Carletto”, come lo chiamavano gli amici, è stata proposta (il 5) dall’Agus Collective da lui fondato, una musica poliritmica e politimbrica, tra ricerca, sperimentazione e utopia sonora (nel collettivo Alice Ricciardi, Daniele Tittarelli, Francesco Fratini e Pietro Lussu). Il 6 sera, invece, un quintetto guidato da Roberto Ottaviano (con la voce di Gianna Montecalvo e la batteria di Marcello Magliocchi) ha proposto le originali e avanguardistiche composizioni di Lenoci nell’intenso set “A Secret Garden”. A seguire il flicornista Franco Piana ha condotto l’omaggio ad Aldo Bassi, con composizioni del trombettista, del leader e di Stefania Tallini, pianista del settetto forte di una significativa rappresentanza del dipartimento jazz del conservatorio di Benevento che Bassi, grande docente, guidava con spirito di trascinatore. Nella stessa serata è stata ricordata l’importante figura di Mario Guidi, organizzatore e manager scomparso a cui il figlio, il pianista Giovanni Guidi, ha dedicato un breve, commosso piano solo.

Il jazz italiano per le terre del sisma” ha guardato al passato, al presente e al futuro con una serie di premi alla carriera conferiti al critico Franco Fayenz ed ai pianisti Amedeo Tommasi e Guido Manusardi. Il premio “Giovani visionari” è stato dato alla batterista Evita Polidoro e quello “Nuove direzioni” ad Alessandro Fedrigo, visionario organizzatore del friulano “Sile Jazz”. Il tutto è stato realizzato in montaggio con i concerti, senza retorica ma con un giusto spirito e senso storico, di consapevolezza e prospettiva, coinvolgendo musicisti ed operatori.

SVELIAMO, ora, il “quadro” dei repertori. Questa edizione ha offerto, tra i molti, gruppi che testimoniano la pluralità dei linguaggi del jazz italiano e la sua assoluta modernità. Formazioni come, tra le altre, Ghost Horse di Kinzelman, Young Shouts di Silvia Bolognesi, Storytellers di Simone Alessandrini, Roots Magic, il trio She’s Analog, Xy Quartet di Nicola Fazzini, Effetto Carsico di Mirko Cisilino, Manual for Errors di Manlio Maresca, il duo Salis/Zanchini rappresentano davvero l’attualità e il futuro di una musica porosa e mai in quiete come il jazz. A fianco ci sono repertori e figure storiche ben ritratti dal recital della Big Band del Conservatorio “A.Casella” de L’Aquila, diretta da par suo dal maestro Enrico Intra, dove si va da Moricone a Rava, da Piccioni a Trovesi, come dall’esuberante “Storyville Story” di Ottolini e Bosso che racconta le origini del jazz.

In definitiva L’Aquila ha dato molto al jazz italiano e viceversa: si è dimostrato che la musica e la cultura possono essere vincenti e vettori di cambiamento economico (e non solo) e sociale come che il jazz italiano è al di fuori di una “nicchia”, in grado di comunicare a una vasta massa di spettatori e di autorganizzarsi in maniera più che efficace, sconfiggendo anche la paura e la solitudine ai tempi del Covid-19.