In yiddish Mokum significa «porto sicuro», o semplicemente «posto»: con questo epiteto affettuoso gli abitanti di Amsterdam ancora indicano la propria città. Mettendo in scena il dialogo di uno scrittore con le pietre e l’acqua, la materia grezza su cui si regge la capitale olandese, l’autrice israeliana Emuna Elon dà forma a La casa sull’acqua, suggestivo romanzo (Guanda, traduzione di Elena Loewenthal, pp. 352, € 18,00) che muove da una fase di spaesamento: paradossalmente, è a queste condizioni che lo spirito del luogo può farsi più eloquente.

Promessa alla madre
Protagonista del romanzo, Yoel Blum è un ebreo mite e particolarmente osservante, diventato un autore israeliano di successo. Da quando i suoi romanzi sono tradotti in diverse lingue, intraprende lunghi tour promozionali all’estero, evitando un’unica tappa-tabù: nato ad Amsterdam, ha promesso alla defunta madre che non ci metterà più piede. Non ricorda molto dell’infanzia olandese, segnata dalla perdita del padre sotto l’occupazione nazista, né ha appreso alcunché dai suoi familiari, che hanno reciso ogni legame con l’Europa dopo l’arrivo in Israele. Deciderà un giorno, tuttavia, di presentare il suo ultimo romanzo ad Amsterdam, luogo che lo spaventa e lo disorienta, e dove non si aspetta di inciampare nelle tracce del proprio passato. Forse non a caso, tuttavia, queste tracce gli si presentano nella forma di un filmato, un brandello di archivio che Yoel vede proiettato nel Museo Ebraico. Radicato nella nobile tradizione aniconica dell’ebraismo, Yoel crede di riconoscere sé stesso in un’immagine senza nome, sopravvissuta alla shoah. Ma a guardare meglio, il bambino che sua madre stringe fra le braccia non è lui: rivelazione, presagio? I morti fanno visita ai vivi senza preavviso.

Scrive Giulio Busi in Lontano da Gerusalemme: «La geografia (è) anche una disciplina immaginaria, in cui il minore e il minimo si possono dilatare sino ad assumere tratti dominanti». Amsterdam è una porta privilegiata su una dimensione, quella della diaspora, per sua natura discontinua e sfuggente, e ora che Yoel ha deciso di ritrovare il bambino della foto, probabilmente disperso, il qualche modo il suo alter ego, non può che affidarsi al potere immaginifico della memoria. Non dispone di informazioni concrete, di dati, non può individuare alcun nesso che lo conduca all’incipit perduto della propria biografia: la sua nascita è un non detto. Per leggere le tracce della shoah occorre risalire il fiume di distruzione che ha trascinato via le più semplici testimonianze della presenza degli ebrei d’Europa. Il poco che sopravvive non catalizza l’attenzione, resta dov’è e nessuno si prende la briga di rimuoverlo.

Grazie a una manciata di indizi Yoel rintraccia la casa della sua infanzia; agisce da scrittore, e sovrappone al poco che c’è il tanto che immagina. Prende posto in uno scalcinato alberghetto poco lontano, sbircia dalla finestra quel che un tempo era il quartiere ebraico. Dalle sue fantasie su ciò che vede prende forma un romanzo nel romanzo, dai contorni instabili, e la ricerca va di pari passo alla finzione: ai buchi della memoria sopperisce la fantasia. Yoel è un devoto marito che si sente sperso fuori dall’alcova della comunità israelitica, senza sua moglie Bat-Ami. Riconsegnato alle ossessioni della shoah, assume le sembianze dell’ebreo errante. Cercare il bambino del filmato lo inabissa in una Amsterdam irrecuperabile, quella di sefarditi e askhenaziti sulle due sponde dell’Amstel, quella dei quadri visti al Rijksmuseum, mentre le proiezioni letterarie compensano la sua scarsa disinvoltura, la paura.

La fantasia del protagonista plasma una città tutta interiore, stimolando una vera e propria riscrittura del sé: «Yoel guarda il quadro in cui Van Gogh dipinge se stesso che dipinge se stesso e capisce che nel suo nuovo romanzo lui cerca di scrivere se stesso che scrive se stesso, e desidera farlo con la medesima precisione con cui Van Gogh dipinge, con la medesima sincerità, con il medesimo bungee jumping da cui non c’è ritorno».

La città interiore
Elon si confronta con la questione non semplice dell’incredulità. A lungo la letteratura della shoah ha nutrito sospetti nei confronti della finzione: se la testimonianza non è creduta, l’invenzione letteraria diventa un vero e proprio azzardo. Elon rilancia la questione escogitando un congegno letterario molto sofisticato, che ricombina continuamente i piani e gioca con i non detti, con «l’infinita parola implicita», la più importante secondo la tradizione rabbinica. A questo si aggiunge la volontà dell’autrice di modulare di volta in volta il peso che il fatto storico esercita sul romanzo. A tratti, la concretezza della guerra, le condizioni precise in cui lo sterminio degli ebrei ebbe luogo emergono con crudezza, smascherando l’illusorio ottimismo della Amsterdam di quegli anni. In altri casi il racconto si svolge in un clima di sospensione quasi atemporale, che tiene la guerra a distanza, e la storia si fa parabola, accogliendo forse un eccessivo sentimentalismo.