Attorno al nome di Carlo Scarpa (Venezia, 1906 – Sendai, Giappone, 1978), autore di allestimenti fra i più apprezzati del Novecento italiano, si è ormai generato un alone di leggenda. Merito doppio, probabilmente: di un’intramontabile seduzione delle sue soluzioni e di una vicenda critica che non accenna a affievolirsi. Ora sull’architetto riprende la parola Philippe Duboÿ, in un volume opportunamente tradotto dal francese da Johan & Levi (Carlo Scarpa. L’arte di esporre, prefazione di Patricia Falguières, traduzione di Rossella Rizzo, pp. 268, euro 25,00). Si scopre che tutto ha inizio con un radicamento, «forse sono proprio nato veneto», «c’è un certo bizantinismo in me, un’analisi spietata del particolare» e anche la sicurezza della civiltà fiorentina viene accantonata: «non è tanto partecipe del mio spirito» (da una trasmissione televisiva, Un’ora con Carlo Scarpa, 1972 – fra le poche testimonianze, orali o scritte, dell’architetto). Meglio imparare dalla «scuola» un’umiltà, un rispetto per la materia, un senso di eleganza. Questo ragazzo viene iscritto all’accademia dal padre, maestro elementare (la madre, sarta, è già morta quando il figlio ha tredici anni), perché «disegna benissimo». Diventa l’allievo prediletto di un professore di architettura, Guido Cirilli, che dal ’26 lo recluta e per tutta la vita Scarpa insegnerà allo IUAV.
La prospettiva tuttavia è tutt’altro che provinciale. «Trovare un volume intitolato Vers une architecture» di Le Corbusier (1923) «fu un’apertura dell’anima» (da una conferenza del ’76, L’architettura può essere poesia?). Per chi ragionava con il Canal Grande negli occhi, la possibilità di costruire con nuovi materiali, quali ferro e cemento, significava rompere con l’immagine di una città imbalsamata «fra una lirica di Byron e una pagina del Fuoco dannunziano» (Edoardo Persico, su «Casa bella», ’32). Scarpa aderisce al movimento razionalista (’31), guarda con attenzione alla Vienna modernista, in particolare agli allestimenti di Josef Hoffmann, che per primo smorza la luce zenitale con dei velari, all’esposizione del Werkbund austriaco (’30). La soluzione diverrà un marchio di fabbrica del veneziano (Salone centrale alla Biennale del ’48; mostra di Antonello a Messina, ’53). Ma il valore aggiunto, sin da subito, arriva dalla consuetudine al disegno di progetto: per le aziende di Murano, Scarpa realizza oggetti in vetro che vengono premiati alle Triennali degli anni trenta. Una volta Frank Lloyd Wright, nel ’51, andò in visita alla vetreria Venini: scovati dei vasi che lo entusiasmavano, li acquistò senza battere ciglio. Ignorava chi fosse l’autore: era Scarpa – e la stima, con l’architetto americano, era reciproca (l’aneddoto lo racconta Zevi, sempre in TV, nel ’72). L’umile professore sta forse affinando, studiando le forme nel vetro, una ricerca di levigatezza, un’ulteriore purificazione dai decorativismi, un culto per trasparenze e chiarezze, la convinzione che la perfezione dipende dal lavoro di fino e dall’abnegazione da amanuense; e rifugge così da ogni impianto teorico, da ogni gabbia di gusto.
I sedici capitoli congegnati da Duboÿ sono dedicati a singoli allestimenti e strutturati a partire da documenti, che scorrono accanto a un apparato illustrativo davvero godibile. L’indice è puntato sulle mostre, non sui musei – per orientarsi sono utili le cronologie ragionate in appendice. Rispetto allo Scarpa maior (che fu quello di mostre e musei), risultano quindi a fuoco angolature su snodi essenziali. Si può verificare, ad esempio, la crescita dell’architetto a confronto con certi artisti esposti, antichi e moderni. È archetipico, quasi traumatico, il dialogo con Arturo Martini. Lo scultore induce l’architetto a comprendere e saper riproporre, a una personale alla Biennale del ’42, la sua tensione su luce e materia. La dislocazione dei basamenti su diversi livelli, l’accrescimento dello spazio fra le sculture, l’effetto dei chiari che ora agiscono sul marmo ora sulla pietra: tutto risponde a una logica emotiva. L’architetto non si sottrae al rischio: nel collocare, sa che sarà costretto a interpretare. Dirà di aver sempre provato, davanti a un’opera, un suo privato «sentimento critico». Non sempre il gioco funziona (per esempio con Fontana alla Biennale del ’66) – e Scarpa lo ricorda, sempre nel ’72: «molte volte ho avuto anche contrasti»; d’altronde alle Biennali l’architetto lavora per trent’anni. Perciò il passato preserva da qualche fatica: «c’è una differenza enorme: nei musei gli autori sono tutti morti». E nel fermento della ricostruzione, che implica la risistemazione delle grandi gallerie non meno che l’allestimento di mostre epocali, un’intera generazione di architetti può sfruttare occasioni irripetibili.
Il nuovo corso veneziano comincia chiaramente dalle Gallerie dell’Accademia (’45-’47). Il modernismo dell’allestimento di Moschini e Scarpa diviene qui radicale: ogni fonte di distrazione – fastose cornici non originali, «vecchie stoffe a fiorami» – viene eliminata. I grandi teleri del Carpaccio con le Storie di Sant’Orsola (1490-1500), prima alloggiati entro stalli e dossali non pertinenti, che intendevano ricostruire l’ambiente della Scuola da cui provenivano, sono ora esposti a poca distanza dal suolo. Arriveranno esiti anche più raffinati di questo primo, drastico tentativo, ma di fatto è solo da ora che i musei italiani, transitati da rade risistemazioni fra il tardo Ottocento e le guerre, smettono di essere quei depositi di cenere che il Futurismo intendeva provocatoriamente spargere al vento. Scarpa, dal canto suo, riesce al massimo grado quando è alta l’empatia con ciò che espone. La sala dedicata a Paul Klee alla Biennale del ’48 e la successiva mostra di Giovanni Bellini a Palazzo Ducale (’49) – entrambe sotto la direzione di Rodolfo Pallucchini – sono vertici espressivi. Teorie di pannelli bianchi, interrotti da sporgenze o da stacchi in nero, inquadrano opere che sempre si cerca di far «parlare da sole». Anche Longhi, forse inizialmente contrariato («un principio di allestimento accettabile seppure ardito»), procede con una benedizione: «questo audacissimo metodo di presentazione potrà, in alcuni casi, provocare polemiche ma alla fine, ne sono certo, sarà ampiamente imitato» (recensione alla mostra di Bellini nel «Burlington»).
Giustamente Duboÿ non si sofferma sui capitoli più noti, quello dell’immersione nella luce e nelle corti siciliane (Antonello a Messina; Palazzo Abatellis a Palermo, ’53) o delle articolazioni spaziali, eccellenti soprattutto per la scultura, di Castelvecchio a Verona (’58-’74). Mette in luce invece l’allestimento della mostra di Mondrian alla GNAM di Roma (’56), dove Scarpa disegna una pianta che somiglia a una tela suprematista: trucco che rimane «un segreto da carbonari» (Carandente, che segnala l’architetto alla Bucarelli, dopo l’esperienza siciliana). I quadri dell’olandese sono sfalsati rispetto ai supporti ma le asimmetrie scarpiane intanto purificano il molosso eclettico della GNAM. Poi l’allestimento culla, su una base di bianco grezzo, quel lungo lavoro di composizione su linee e colori. La variatio implicita nella regola pittorica doveva risultare magnificamente esaltata, la mostra è un perfetto «commento critico» all’artista; per una volta, sono tutti d’accordo nelle lodi, da Brandi a Venturi Lionello. Solo «Proust, si disse a Roma, non l’avrebbe visitata per paura di un attacco d’asma» (Argan, in un’ammiccante recensione anonima).
L’occasione di intervenire ancora sul Canal Grande arriva quando a Palazzo Grassi si allestisce Vitalità nell’Arte (’59). Sotto gli auspici critici di Willem Sandberg, la nuova koiné occidentale, che radunava Informale e COBRA, doveva convivere con lampadari e saloni settecenteschi e necessitava nuovamente, a suo modo, di silenzio attorno. È quindi nell’arte del dosaggio fra soavità personale, esigenze degli spazi e sovranità della domanda di artisti o curatori che va misurato l’estro progettista di Scarpa. Raramente è andato a caccia di formule; più spesso lo scoviamo in preda a problemi, che talvolta risolve ricorrendo a un incantesimo. Fra i tanti esempi possibili, basta la finestra ad angolo nella gipsoteca canoviana a Possagno (’55-’57), che fa da copertina al libro. Da questo buco su tre pareti, «il giorno dell’inaugurazione era un azzurro bellissimo, e sembrava – i cristalli erano molto tersi, ben puliti – che il cielo fosse tagliato a fette» (’72).