Ho dimenticato il mio nome, e il mio volto». Si chiamava Emmy Hennings o Ball-Hennings (1885-1948), nata Emma Maria Cordsen, ed era una poetessa, scrittrice e performer. Incidentalmente, Emmy è stata la «stella» del Cabaret Voltaire, una stella che però ha brillato a lungo di luce riflessa, emarginata dalla narrazione patriarcale come attricetta demi-monde che si riscatta grazie all’amore per un uomo di genio, Hugo Ball, e quindi si realizza come vedova devota al culto del defunto marito. Certo, lei ha fatto poco per riscuotere la gloria che le sarebbe spettata e anzi ha preferito defilarsi, lasciando che fossero altri a commemorare l’avventura dadaista.
Racconta Hans Richter: «L’unico membro femminile del Cabaret Voltaire, Emmy Hennings, aveva come si può immaginare, una difficile posizione di fronte a questa composizione maschile del gruppo. Emmy aveva una voce sottile tutt’altro che fatale, ma una personalità marcata. Durante la sua giovinezza aveva incontrato alcuni dei migliori poeti tedeschi e era stata la loro ispiratrice. Per quanto mi ricordo di lei, ossia dal 1912, essa aveva vissuto esclusivamente tra artisti e scrittori bohémien. Già allora se ne andava in giro con lo sguardo velato e un po’ rivolto al cielo, come una mistica. Io non mi trovavo proprio a mio agio con lei, come del resto neppure con Ball, eternamente vestito di nero come un prete. La sua affettazione fanciullesca, le cose inverosimili che diceva con una serietà funerea rimanevano inspiegabili per me: questo me la rendeva estranea e come donna e come persona».
In una famiglia di pescatori
Originaria di Flensburg, paese della Germania al confine con la Danimarca, Emmy nasce in una famiglia di pescatori e da ragazza lavora come domestica e lavandaia, sognando di fare l’attrice. A diciannove anni sposa in prime nozze Joseph Paul Hennings, tipografo, con cui concepisce un figlio che muore ancora in fasce; il matrimonio naufraga molto presto. Nello stesso periodo inizia a calcare le scene e dal 1906 gira la Germania e l’Europa orientale con compagnie teatrali e gruppi di operetta e vaudeville. Nel frattempo dà alla luce una bambina, Annemarie, che affida alle cure di sua madre. Tra il 1909 e il 1910 entra in contatto con l’ambiente intellettuale di Berlino e di Monaco, frequenta il circolo del Café des Westens; intreccia numerose relazioni amicali e sentimentali con artisti e letterati – tra cui John Höxter, Max Oppenheimer, Franz Wedekind, Jakob van Hoddis, Johannes Becher, Else Lasker-Schüler. Mentre è in viaggio a Parigi con lo scrittore Ferdinand Hardekopf la febbre tifoide la costringe su un letto d’ospedale e accende in lei un sentimento religioso che nel 1911 la porta a ricevere il battesimo cattolico. Si lega in modo instabile ma passionale a Erich Mühsam, attivista anarchico e antimilitarista. Anni più tardi, quando Mühsam, definito da Goebbels «l’ebreo rosso che pervertiva la Germania», viene internato dai nazisti, Emmy tenta invano di farlo rilasciare.
A Monaco la sera si esibisce per cinque marchi nel locale di Kathi Kobus, il Simplicissimus, e poi al Bunter Vogel. Intanto scrive e pubblica poesie su «Die Aktion», «Pan», «Der Revoluzzer» e «Die Neue Kunst»; e nel 1913 grazie all’interessamento di Franz Werfel i suoi componimenti escono nella serie Der jüngste Tag sotto il titolo Die letzte Freude.
La vita nel sottobosco artistico della Germania anteguerra è dissoluta e tormentata, e nella precarietà Emmy alterna il teatro con occupazioni saltuarie: modella, cameriera, venditrice ambulante e prostituta. Scende tutti i gradini dell’auto-mercificazione. Etere e morfina. Finisce più volte in galera, con accuse come quella di aver borseggiato un cliente durante l’amplesso – dalle sue traversie carcerarie ricava un romanzo (Gefängnis, 1919). Finché, dopo l’arresto per presunta correità nella diserzione dello scrittore comunista Franz Jung e il rifiuto di recitare testi di propaganda bellica, nel maggio del 1915 fugge con documenti contraffatti in Svizzera assieme a Hugo Ball, incontrato nel 1913.
I due trascorrono mesi difficilissimi prima di riuscire a mettere in piedi nel 1916 il Cabaret Voltaire nella holländische meierei in Spiegelstrasse 1 a Zurigo. Con il suo carisma Emmy media tra le ambizioni dell’avanguardia e le aspettative del pubblico, risultando determinante per il successo dell’impresa. Senza Emmy non c’è Dada, almeno non a Zurigo. «La stella di questo Cabaret è Emmy Hennings. Stella di mille notti e mille poesie. Come anni fa stava in piedi dinanzi a un giallo sipario frusciante di un cabaret berlinese, con le braccia allargate sui fianchi, florida come un cespuglio in fiore, così anche oggi presta il suo corpo alle stesse canzoni con fronte sempre più altera, ma rispetto ad allora un po’ più scavata dal dolore» («Zürcher Post»).
Le poche e succinte descrizioni restituiscono un’immagine parziale di Emmy, vagamente sessista e centrata sul dettaglio fisico. Persino Ball lesina notizie sulle performance della compagna, benché ogni tanto riveli aspetti della loro routine casalinga: «Emmy cominciava a cantare e mentre cantava gli ascoltatori si calmavano. Era capace di attirare l’attenzione su di sé, anche se non era affatto bella. Aveva un viso piatto, inespressivo e capelli biondi tagliati corti che ricadevano sugli occhi . Gli studenti che dalle bettole erano approdati al Cabaret Voltaire, aspettandosi qualcosa di particolare, adesso trovavano il proprio tornaconto. Puntavano i loro occhi pesanti d’alcool su Emmy, spingevano il cappello sulla nuca e mormoravano applausi. Quando Emmy aveva terminato, battevano violentemente i loro bastoni da passeggio sul pavimento e urlavano per l’entusiasmo».
L’amicizia con Hermann Hesse
Il repertorio di Emmy combinava arte colta e cultura popolare, canzoni danesi, parigine, berlinesi, ballate cinesi e poesie sue e di altri autori su temi come la solitudine, l’estasi, l’alienazione, la droga e la morte. Chiusi i battenti a Spiegelstrasse, le soirée continuano alla Galerie Dada. Recite, maschere, danze, marionette.
Ancora Richter: «Soltanto Ball, dotato di umanità, comprendeva in pieno la sua natura. E, anche se non poteva non accorgersi della sua affettazione, tuttavia sapeva vedere oltre e trovare in Emmy l’immagine di una fanciulla semplice, la cui confidenza, tanto spesso mal ricompensata, sapeva interessarlo come uomo, senza tuttavia impegnarlo a fondo». Emmy e Hugo si sposano nel 1920, anno della prima edizione di Das Brandmal, diario-confessione di una puttana. Espiazione, ispirazione. La coppia soggiorna perlopiù in Svizzera e stringe amicizia con Hermann Hesse. Dopo la morte del marito, Emmy cura l’eredità letteraria di Ball e redige testi biografici su di lui – Hugo Ball. Sein Leben in Briefen und Gedichten (1930), Hugo Balls Weg zu Gott (1931), Ruf und Echo. Mein Leben mit Hugo Ball (1953, postumo) – nei quali esalta i valori cristiani della loro vita comune. Passata la Seconda guerra, si stabilisce a Magliaso, sul lago di Lugano, lavorando come operaia. Muore povera dopo un’esistenza nell’affanno dell’indispensabile: un tetto, del cibo.
«Vivo nel forse / Sono il grande interrogativo».
La produzione letteraria giovanile di Emmy ha un carattere autobiografico e manifesta il dissidio tra il desiderio di emancipazione dalle convenzioni sociali e il senso di colpa che questo stesso desiderio genera. Nei lavori del ventennio seguente la morte di Ball – Blume und Flamme. Geschichte einer Jugend (1938), Das flüchtige Spiel. Wege und Umwege einer Frau (1940) – subentra un’esigenza di redenzione. Nel 1929 confida a Hesse, estimatore delle sue doti di scrittrice: «Non sapete quanto vorrei dare di me, almeno sulla carta, un’immagine di essere umano armonioso. Ma neanche con dieci comuni denominatori diversi riuscirei a sintetizzare la mia storia». In questo senso la religione diventa la possibilità di ricomporre le schegge di una totalità esplosa in un’identità pacificata; e magari anche un’opportunità per procacciarsi l’attenzione di qualche editore.
Quali che ne fossero i moventi, il cattolicesimo di Emmy ha comunque contribuito a rendere la sua figura incompatibile con il cliché dell’artista dadaista. Eppure è proprio attraverso l’incoerenza e la fragilità di un’innocenza «tanto spesso mal ricompensata», e l’urgenza di esprimersi in una simbiosi perfetta di arte e vita, che Emmy ha incarnato Dada senza bisogno di proclami o rivendicazioni.
In chiusura di «Cabaret Voltaire», la rivista del 1916, c’è una lista che riporta le nazionalità dei partecipanti al volume. Solo un nome, l’ultimo, figura come «Sans Patrie»: Emmy Hennings.