L’avevamo ritrovata all’improvviso scoprendo con folgorazione nuova il suo fascino discreto e elegante nel corpo di Anne, l’insegnante di musica ormai anziana ma sempre attenta e amatissima dai suoi ex allievi, e dal marito compagno di una vita in Amour (2012) di Michael Haneke. Gli occhi chiari si allargavano stupiti sul mondo man mano che la coppia della storia si scopriva fragile, quasi inerme, di fronte alla vecchiaia, alla malattia, alla morte. Candidata all’Oscar – Amour ha vinto la statuetta nella categoria del miglior film straniero – premiata finalmente col César in Francia, Emmanuelle Riva aveva conquistato la Croisette, non era molto tempo fa, circa cinque anni, lei era bellissima, coi capelli corti e bianchi sul tappeto rosso delle marches insieme a Jean Louis Trintignant, coprotagonista del film, e all’austero regista austriaco.

 

 

Da quattro però l’attrice era malata di cancro, non lo sapeve nessuno, lei ci teneva alla riservatezza e poi continuava a lavorare, piena di energia, di nuovi progetti: film, Marie et les naufragés di Sébastien Betbeder, Paris pieds nus di Fiona Gordon e Dominique Abel che in Francia uscirà il prossimo marzo, Alma, girato in Islanda di Kristín Jóhannesdóttir, spettacoli teatrali – era in scena lo scorso novembre a Villa Medici,a Roma, con la lettura Medusa suite – mettendo in discussione la certezza ancora ben salda che in vecchiaia si è destinati a sparire o al più a essere celebrati come monumenti. «Mi sono molto divertita a lavorare con Haneke, lo considero un privilegio – diceva parlando di Amour – Per fortuna io non sono Anne, sono una persona ancora abbastanza agile, sul set ho dovuto imparare a muovermi con la lentezza dei vecchi».

 

 

 

Lei all’età non si arrendeva, vitalissima e piena di una grazia speciale, la stessa che tanto tempo fa l’aveva resa un’icona del cinema francese, quando Alain Resnais la scelse come protagonista di Hiroshima mon amour (1959), il film che con Notte e nebbia (1956) e Muriel ou le temps d’un retour (1963) afferma la modernità nel cinema e l’inizio della Nouvelle vague. Un ruolo forte, doloroso, che incarna i traumi del ’900 e la ricerca dell’immaginario di una forma per raccontarli: la rende famosa ma continuerà a accompagnarla a lungo, forse non sempre con leggerezza.

 

 

Emmanuelle era nata Paulette, il 24 febbraio del 1927 a Cheniménil , famiglia di origini italiane, come suggerisce il cognome, Riva. Il futuro per lei prevedeva il mestiere di sarta – «avevo anche confezionato qualche abito da sposa» raccontava in un’intervista – ma Paulette ama il teatro e palcoscenico (non senza fatica) fu.  Arriva  a Parigi, riesce a entrare all’Accademia teatrale di Rue Blanche anche se ha già 26 anni, poi il debutto, gli spettacoli tra classici (Euripide, Molière, Shakespeare)e contemporanei (Pinter, Pirandello, Nathalie Sarraute). «Se non ce l’avessi fatta sarei morta. Avevo già ricevuto decine di proposte di matrimonio ma le avevo tutte rifiutate. Perché mi sarei dovuta ingabbiare con un marito e dei figli?».

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Al teatro Riva rimarrà legata anche se sarà il cinema a renderla popolare. Ed è a teatro che la scopre Alain Resnais in cerca dell’interprete di Hiroshima mon amour scritto da Marguerite Duras, nel quale il regista ripercorre i traumi della guerra, le ferite dell’Europa e del Giappone, l’orrore della bomba atomica. Due amanti, Lei, un’attrice francese, Lui, un architetto giapponese vivono una storia impossibile.

 

 

 

 

«Tu n’as rien vu à Hiroshima…», tu non ha visto niente a Hiroshima ripete Lui, mentre Lei torna al ricordo di un altro amore per un soldato tedesco durante la guerra, al dolore per averlo perduto, all’umiliazione. La Storia è la trama delle loro intime macerie.
In Kapò (1959) di Pontecorvo, Riva è Terese, prigioniera nei campi di concentramento che si uccide gettandosi sui fili dell’elettricità, una scena che diviene emblematica nella discussione critica su come filmare l’Olocausto – «abietta» la definì il regista Jacques Rivette con riferimento all’uso del carrello.

 

 

Nel 1962 con Thérèse Desqueyroux di George Franju, vince la coppa Volpi alla Mostra di Venezia per la migliore attrice, un altro ruolo di donna solitaria, eroina enigmatica e non conformista come era Barny, la protagonista di Leon Morin,prete (1961)di Melville (in Italia anche La carne e l’anima), marxista che si innamora del sacerdote Jean Paul Belmondo. In Italia Riva lavora più volte, tra gli altri con Antonio Pietrangeli (Adua e le sue compagne, 1960) e Marco Bellocchio (Gli occhi, la bocca, 1982)