Un supremo stilista, il campione della prosa d’arte o di ciò che fu detto il «capitolo in prosa», l’autore di Pesci rossi (1920) e di America amara (1939), un critico militante che ebbe cattedra su giornali e periodici per mezzo secolo e specialmente sulla terza pagina del Corriere della sera, l’autentico doganiere della letteratura italiana: questo lo stereotipo più longevo, residuato nel senso comune, di Emilio Cecchi (1884-1966).
Ma altri stereotipi possono dedursi da quello primordiale: che Cecchi fosse un crociano inquieto e renitente alla tautologia di intuizione/espressione, che fosse di gusti tradizionalisti o in sostanza antimodernisti (nonostante l’apprentissage fra il «Leonardo» e «La Voce»), che infine il suo profilo di cattolico con evidenti nervature reazionarie fosse comunque così esangue da poter oscillare tra la firma apposta nel ’25 in calce al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e la progressiva acclimatazione nel regime di Mussolini culminata, al principio della guerra mondiale, nello scranno all’Accademia d’Italia. Insomma Cecchi sembrava solo un caso, fra molti altri, di trasformismo e opportunismo all’italiana, un bigio (così i camerati fascisti apostrofavano i tiepidi) capace di riposizionarsi a ogni passaggio di fase, riapprodando per esempio con un heri dicebamus al Corriere diretto da Emanuel, nel ’47, dopo avere scritto fino all’ultimo in quello diretto da Amicucci sotto i labari di Salò. Ma paradossalmente lo aveva immunizzato la violenta stroncatura, a insulti e sputi, del suo vecchio amico Giovanni Papini, La sor’Emilia («La Voce», 1915), dove gli si dava a man salva dell’eunuco e dell’invertebrato. Cecchi era invece un maestro della astuta dissimulazione, un artista della calettatura mirata, laddove trapassando dal taccuino privato (Niccolò Gallo e Pietro Citati già nel ’76, per Mondadori, curarono parte del suo sterminato zibaldone, i Taccuini) all’articolo di giornale per approdare al libro a stampa, ogni suo testo tende sempre a rimodellarsi, a introdurre o smussare o eliminare certi tratti secondo un principio di pubblica risonanza e, dunque, di personale opportunità: l’edizione di numerosi carteggi e tutta la filologia postuma, a partire dai lavori della sua maggiore studiosa Margherita Ghilardi – e qui si vedano gli apparati al complessivo Saggi e viaggi, Meridiani Mondadori 1997 –, non dice altro se non dello stillicidio variantistico che in effetti è un prodigio di imperterrita, cautelosa, mistificazione.

Lo testimonia, con evidenza documentaria e precisione analitica, l’ottima monografia di Bruno Pischedda, L’idioma molesto Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale (Aragno, «Biblioteca», pp. XVII+313, euro 20.00). Lo studio ha una struttura per cerchi concentrici, il suo epicentro è il 1938, l’anno delle leggi razziali e dell’uscita di «La Difesa della Razza», la rivista di Telesio Interlandi (direttore di «Tevere», foglio su cui è assiduo peraltro lo scrittore fiorentino): Cecchi è reduce da un viaggio a seguito del Duce in Libia, si è appena imbarcato per gli States e sta per approdare a Cabo Verde, colonia portoghese. È un viaggiatore insonne, attento, smagato e tuttavia atterrito dalla mescolanza delle etnie che in America assume una evidenza spettacolare. Edulcorate o persino sublimate quando approdano nel libro a stampa, le espressioni dei suoi reportages reiterano la paura del meticciato e della mescolanza etnica, riguardo ai neri di Harlem, mentre sospettano costantemente nell’ebraismo un elemento parassitario e dissolvitore della organicità del mondo occidentale e cristiano. Scrive Pischedda che Cecchi, razzista per vocazione e antisemita per elezione, è in primo luogo un differenzialista. Si affaccia al ghetto, lo descrive estetizzandolo ma se ne ritrae temendone la proliferazione e cioè l’approdo a un universale metissage: «La vera scommessa del viaggio africano non è conoscere, rendersi disponibili al nuovo, affacciarsi sull’ignoto, bensì ri/conoscere sotto le fogge molteplici della compagine antropomorfa il principio originario che dovrebbe ordinarle: è stigmatizzare con parole aperte le misture razziali proprio perché quell’ordine suppostamente primigenio e gerarchizzato mettono a serio rischio».

Non è questo un semplice obolo al razzismo fascista, semmai è un principio ordinatore dello sguardo critico di Cecchi (qui Pischedda fa notare come la sua eresia stilcritica mutasse in un grumo di radicamento etnico l’irenica «fantasia» di Croce) ed è un tratto che ne caratterizza più o meno sottotraccia l’intera vicenda. Già agli esordi, critico de «La Tribuna» dal 1910, ricorre nelle sue recensioni la nozione di «stirpe» (forse una variante di souche, «ceppo», cara a Maurice Barrès) e si sprecano i riferimenti a Gobineau, Chamberlain, a Léon Daudet e soprattutto a Weininger nella cui parabola legge una giudaica eterogenesi dei fini, la stessa dell’ebreo che non dissolve l’altro ma sé stesso nell’atto di riconoscersi tale; alla «Ronda», vera e propria couche antisemita, fa da rincalzo a Bacchelli nel caso-Da Verona, ludibrio di un autore degradato a minuscolo d’Annuzio semita; nei pieni anni trenta, ormai da firma rispettata e temuta del Corriere, ha rapporti costanti (di collaboratore e di probabile delatore) con mons. Umberto Benigni, storico della Chiesa, pubblicista, promotore della rete spionistica «Intesa romana di difesa sociale», poi affiliato all’Ovra; nel ’42 prende la parola come rappresentante ufficiale dell’Italia al convegno di Weimar voluto da Goebbels e nello stesso anno si presta all’emendamento sistematico dell’antologia Americana compilata da Elio Vittorini, firmandone una ambigua introduzione.

Non basta. Indisturbato dai processi di epurazione, Cecchi nel dopoguerra procede immutabile, gli basta la consueta reticenza e l’inesausto labor limae sui testi pregressi. L’occhio è sempre quello di un cattolico integralista che non ha bisogno di esibirlo, di un reazionario che non parla più di stirpe ma da ogni autore analizzato continua ad esigere un radicamento identitario, l’adesione a un mondo organico. Il 9 giugno del ’45, recensendo per «Voci» un documentario sui campi di sterminio, firma con pseudonimo un articolo, Immagini dell’orrore, dove riesce a far sparire la parola «ebrei». Nessuno eccepisce, la corporazione tace a parte un articolo uscito in una sede periferica, «Campi Elisi», dove un giovane critico marxista, Adriano Seroni, gli revoca la qualifica di maestro. In piena guerra fredda e in perfetta solitudine, sarà ancora un poeta comunista, Velso Mucci, a pronunciare la requisitoria Emilio Cecchi uomo d’ordine («Il Contemporaneo», settembre 1958, poi in L’azione letteraria, a cura di Mario Lunetta, Editori Riuniti 1977: è singolare che Pischedda non lo menzioni affatto): «La stranezza maggiore sta nel fatto che nessuno più di lui è prodigo di nomi e cognomi, di date, di cose, di referenze, di citazioni; ma è come se, toccata appena la realtà in quel punto su cui lo ha costretto l’occasione quotidiana di scrivere, egli se ne dipartisse subito, armi e bagagli in un’aura di liberi e sciolti ripensamenti, di ammiccanti sottolineature formali, di gustose ricreazioni». Sia detto per esteso: quello è il cielo cui aspirano gli stilisti supremi e, insieme, le più ineffabili canaglie.