Il giorno del giudizio è dunque arrivato: per Stefano Bonaccini, per il centro-sinistra, in Emilia-Romagna e nel paese, ma anche per il centro-destra. Se contassero solo i risultati, il governatore candidato «incumbent» avrebbe i numeri dalla sua e molto di cui andare giustamente fiero. Una delle regioni meglio amministrate del paese, uno dei governatori con il più alto indice di gradimento in Italia, una candidata sfidante senza esperienza di governo. Inoltre, se anche l’Emilia-Romagna è divenuta «contendibile», è pur vero che qui il centro-sinistra mantiene un rilevante consenso: alle Europee del 26 maggio scorso il Pd e i suoi alleati raccoglievano ancora più di 891 mila voti (contro i 996 mila del centro-destra), appena 3 mila in meno di quelli delle Politiche del 4 marzo 2018. Eppure, nonostante questi elementi di certezza, il centro-sinistra si è presentato a queste elezioni frastornato, quasi come se il suo candidato partisse come outsider. E il suo candidato, alla fine, ha fatto gara a sé, con il Pd al seguito. In tutto questo, poi, il M5S ha fatto di tutto per rendere la contesa elettorale ancor più incerta, con una scelta che riflette tutta l’autoreferenzialità di un movimento attorcigliatosi attorno alle sue contraddizioni senza fare una scelta di campo e che, nell’irrilevanza, finirà per liquefarsi.

PER COME CI SIAMO ARRIVATI, comunque, le elezioni di oggi fanno riflettere e ci pongono più di una domanda sul vuoto della politica. In primo luogo, non si può non notare la distonia di una coalizione che, mentre si candida a governare una delle regioni in Europa più avanti su molti piani, ricca di eccellenze, chiude la campagna elettorale sul tema dei minori, con una strumentalizzazione fin troppo becera di vicende non solo circoscritte ma anche specifiche. È questa l’Emilia-Romagna che gli emiliano-romagnoli vogliono vedere rappresentata in Europa? Ovvio, lo sappiamo, il voto leghista e di destra pesca tra i ceti moderati e conservatori. E le battaglie propagandistiche servono solo ad attirare i ceti popolari che più si sentono abbandonati e insicuri, che covano il disagio. Ma questa prima osservazione di «stile», oltre che di contenuto, riflette quanto siano mutati i sentimenti e i valori dei ceti cosiddetti «moderati».

IN SECONDO LUOGO, IL PD e il centro-sinistra arrivano all’appuntamento non solo avendo perso pezzi ma anche idee e motivazioni. Ben poco, nei programmi come nella «narrazione» proposta, è stato offerto a quei ceti che, nel corso degli anni, si erano allontanati. Perché è chiaro che dietro al consenso leghista non c‘è solo l’incitamento all’odio, il razzismo, il revanscismo bigotto. Il centro-sinistra il suo «blocco sociale» lo aveva già perduto alle Politiche del 2013 allorché la «non vittoria» di Bersani mostra come, nell’enorme consenso dei 5 Stelle, si alligni il distacco dei ceti non protetti e che più sentono il peso della crisi. Nei cinque anni successivi, molti ponti sono stati bruciati in nome dell’Europa rigorista da un centro-sinistra convinto che avrebbe mantenuto il consenso delle masse. Ma né il Pd né la discussione a sinistra, dopo il 2013, avviano una riflessione sulle origini di quei movimenti elettorali. E i cinque anni della legislatura che vedrà l’ascesa e il declino di Matteo Renzi contribuiranno solo ad accentuare la frattura che si manifesta nel territorio tra ceti urbani e protetti e ceti suburbani e periferici e non protetti.

IL MOVIMENTO NEL VOTO in Emilia-Romagna riflette l’allargarsi di quella faglia. Tra le Politiche del febbraio 2013, le Europee del maggio 2014 e le Regionali del novembre 2014, la Lega passa da 69 a 116 a 233 mila voti. La Lega, a quel punto, non ha ancora assunto quei caratteri sovranisti e securitari che prenderà poi. Il M5S, invece, nelle tre tornate, scende da 658 a 444 a 167 mila voti. Quattro anni dopo, alle Politiche del 2018, quando la curvatura populista della Lega è già evidente, gli argini sono rotti: la Lega sale ancora, fino a 487 mila voti, e il M5S risale ai livelli di 5 anni prima (698 mila voti). Il centro-sinistra «regge», sì, ma ha perso definitivamente i ceti meno protetti che guardano ora a Lega e 5 Stelle. Il voto del 2019 non fa che confermare il trend, a parti invertite a favore della Lega (ma la somma dei voti di Lega e M5S è minore).

C’È QUINDI UN DATO CHE mostra un tratto tutto «novecentesco» di questa crisi della politica: che il ceto medio-basso di per sé non è un baluardo della democrazia e che, di fronte all’incalzare dei ceti inferiori, non esita a preferire soluzioni «forti» e illiberali. Con la differenza che in una regione avanzata come l’Emilia-Romagna, ci sono oggi «due» ceti medi e medio-bassi: quelli urbani, protetti, cosmopoliti e globalizzati e, in definitiva, progressisti, e quelli sub-urbani, non protetti, che nella globalizzazione vedono un pericolo e che preferiscono «chiudersi». Le elezioni, comunque si risolveranno, ci faranno capire qual è la distanza tra i due e se l’Italia deve, un secolo dopo, preoccuparsi di nuovo di un’involuzione illiberale dei suoi ceti medi.