Non capita a molti film maker indipendenti di poter essere considerati «archivi viventi» della propria generazione ed emergenze. Soprattutto se ancora nel pieno degli anni e più che mai dentro quella conflittualità che quasi per forza ha finito per mettere insieme il lavoro con la vita. È questo il caso dell’indiano Sanjay Kak, invitato in Italia con il suo ultimo e impegnativo Red Ant Dream dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma, nell’ambito di un convegno internazionale sulla complessità del presente dell’India (http://www.disp.uniroma1.it/node/7235) e protagonista di una serie di appuntamenti tra Torino e Milano. *
Cineasta autodidatta dopo una laurea in Economia, autore tutt’altro che prolifico (ogni suo film è frutto di mesi di riprese e anni di ripensamenti durante il montaggio), Sanjay Kak fa parte di quella comunità di media-attivisti via via formatasi nell’ultimo decennio a Delhi, come progetto di sguardo (perché ci vuole una precisa professione di volontà anche nel vedere) oltre i confini delle proprie origini di casta e confort esistenziali.

Lui, Anand Patwardan, Amar Kanwar, Rakesh Sharma e altri, hanno sicuramente ricevuto la lezione di Gathak, ma sostanzialmente sono diventati testimoni della conflittualità del presente per il fatto di esserci dentro: impossibile guardare altrove, doveroso restituire. Inevitabile diventare partigiani di quelle valli e foreste in resistenza, di quelle campagne strappate al lavoro contadino con la forza, di quei villaggi sommersi dalle acque e dati alle fiamme – inevitabile il desiderio di registrare le scene dell’abuso, per sottrarle all’invisibilità.
Un percorso, una maturazione anche personale, che la filmografia di Sanjay Kak descrive in pieno. Da quella prima inchiesta sull’efficacia della democrazia, che nel 1997 (anniversario dei 50 anni della dichiarazione di indipendenza dell’India) volle titolare come One weapon (Un’arma, nel senso di: una scelta possibile nel diritto al voto, una conquista del recente passato che si riverbera nel futuro, una modalità di partecipazione); alla scioccante esperienza del muro, che solo pochi anni dopo, con Words on Water, si trovò a documentare dall’interno del Narmada Bachao Andolan (Movimento per la Difesa del fiume Narmada).

Un muro non solo di cemento per le troppe dighe, Grandi, Medie, Mega, previste dal progetto (tipica Grande Opera di totale e persino finanziaria insostenibilità, che tra l’altro distrusse un’estensione territoriale ben maggiore di quella che avrebbe dovuto irrigare.) Muro soprattutto in termini di confronto con le istituzioni. Oltre ad essere un ultimo omaggio a un mondo che scompare, Words on Water è soprattutto la minuziosa documentazione di un dialogo ripetutamente reclamato, con le varie stanze del Potere; ma continuamente negato e criminalizzato.

Fino al definitivo verdetto, nelle aule della Corte Suprema di Delhi – che oltre all’assurdo giorno di galera inflitto persino alla scrittrice Arundhati Roy (impossibile non pensare al nostro Erri De Luca, nella dissolvenza incrociata dei paesaggi e delle valli) decretò la continuazione dei lavori sulla diga più grande, la Sardar Sarovar, e la cancellazione di un immenso territorio, per giunta agricolo e fertilissimo.
Words on Water uscì nel 2002 benché le riprese fossero iniziate molti anni prima. E la laconicità del titolo, «Parole sull’acqua», significava parecchio. Considerazioni sul cosiddetto sviluppo. Bilancio di una resistenza in effetti fallita. Parole gridate, parole d’ordine, inutili slogan, di fronte all’inappellabile logica del potere. Ma soprattutto il progressivo svuotamento di ex-parole/cardine, come democrazia, inclusione, partecipazione. Nonostante il risalto mediatico, il seguito anche internazionale, la ritirata dal progetto persino della Banca Mondiale (oltre che di alcuni investitori privati, come le tedesche Siemens, o Hypo Bank), il movimento più genuinamente non violento dell’India, che fino all’ultimo si era opposto all’abuso degli espropri con la sola forza dei sit in e degli scioperi della fame – era stato schiacciato. E significativamente al Social Forum Mondiale che si tenne a Mumbai nel 2004, mentre i vari seminari si chiudevano anzitempo per il rumore dei cortei di fuori, con tutti i movimenti sociali dell’India per la prima volta riuniti insieme in uno stesso luogo – ecco il debutto di tutt’altra storia, sotto il tendone del Mumbai Resistence al di là dello stradone, ovvero l’alleanza dei movimenti antagonisti, con ben diverse parole d’ordine.
Pochi mesi dopo Sonia Gandhi riuscì a vincere contro tutti i pronostici le elezioni contro il reggente BJP, e con una campagna totalmente vecchio stile: raggiungendo in auto e persino a piedi il maggior numero di villaggi, recuperando un minimo di fiducia in quell’India rurale che resta (tuttora) la maggioranza dell’elettorato. Per un attimo si sperò in una qualche inversione di rotta, in una revisione possibile del diktat liberista. Durò poco. Nel 2005 la Mc Kinsey pubblicò un primo report sulle incredibili risorse minerarie ancora da sfruttare, nel sottosuolo del centro-India – e in particolare tra gli stati dell’Orissa, del Chhattisgarh, del Jharkhand cominciò la gara per aggiudicarsi il maggior numero di ‘protocolli’ finalizzati all’estrazione di tutto quel che la regione ha da offrire. Che è moltissimo: il 49% per cento dei giacimenti minerari dell’intero sub-continente.
Ma nel frattempo (piccolo flash back) c’erano state le due torri a Wall Street – e la bomba al Parlamento indiano subito dopo. E il massacro in Gujarath nel 2002, subito prima la quasi-scoppiata guerra nucleare con il Pakistan, con il crescere della tensione in vera e propria intifada in Kashmir. Sanjay Kak, la cui famiglia è originaria del Kashmir, si era trovato coinvolto nell’inchiesta che vedeva (ingiustamente) indiziato della Bomba al Parlamento indiano un certo Gilani, docente all’Università di Delhi, sbattuto in galera per via di una telefonata, erroneamente interpretata. E divenne inevitabile guardare un po’ più da vicino anche al Kashimir. Jashn-e-Azadi (In che modo celebriamo la libertà) è del 2007 ma come il film precedente è il frutto di numerose incursioni in quella impressionante occupazione militare che è Shrinagar e oltre. Ed è un film talmente denso di rumore e rabbia da rendere urlati anche i momenti di silenzio: quelli di fronte a una tomba di figlio, portato via una notte e mai più restituito; o di fronte alle ceneri di un villaggio raso al suolo; o tra le righe di un poema in versi (Sankay spesso ricorre alla purezza della poesia.) Il Governo indiano e in generale la pubblica opinione non gradirono. Il film venne visto in clandestinità: stanze private, garages.
Red Ant Dream («Il sogno delle formiche rosse», finito di montare nel 2013 dopo quattro anni dalle prime riprese) è la naturale conseguenza di tutti questi percorsi e punti di non ritorno. Comincia dall’interno delle foreste del Bastar, in quella stessa spedizione embedded tra i maoisti indiani che ci è stata raccontata anche da Arundhati Roy nel saggio In marcia con i ribelli, ovvero in condizioni totalmente fuori-legge. Ma non si accontenta dell’eccezionalità di quell’esperienza – essendo ormai fin troppo chiaro, a quel punto, per l’autore, il ben più vasto mosaico dell’emergenza in tutta l’India. Emergenza sociale, ambientale, di cosiddetta governance, di lotta fra caste, e sempre più emergenza alimentare.

Dalla militarizzazione delle zone tribal/minerarie (oggetto di quella aberrazione anche terminologica che fu la Green Hunt Operation, Caccia al verde) la camera di Sanjay Kak si sposta quindi nelle pianure del Punjab, dove l’icona del freedom fighter Baghat Singh, martire degli inglesi a soli 23 anni di età nei primi anni ’20 del secolo scorso, continua ad ispirare il sogno di Inkilab (rivolta) dell’Akali Party. E infine si spinge nel cuore di quell’India arcaica, indigena, animista, dove non serve pensare a Mao o scandire il zindabad (lunga vita) per sapere che il futuro non è quello promesso dalla multinazionale Vedanta – bensì dentro le viscere della Signora Montagna, il Nijam Raja. In quella cosa che per Vedanta si chiama bauxite, da raffinare in alluminio, di prima qualità; e che Madre Natura ha semplicemente pensato come capacità di trattenere ogni goccia d’acqua che arriva col monsone, per poi restituirla in torrenti e fiumi. Mammella di fertilità – cos’altro c’è da sapere per sapere da che parte sta la vita?
Film importante, inevitabilmente cupo, claustrofobico, pesante – e purtroppo destinato a rimanere attuale ben oltre le circostanze che attraversa. La prima mossa del neo-eletto Governo di Narendra Modi per rassicurare i mercati è stato garantire infatti che tutti i progetti di sfruttamento minerario attualmente in stand by (e sono decine, per la conflittualità di cui sopra) avranno al più presto il go ahead. Ovvero: dichiarazione di guerra.
 La proiezione il 10 giugno a La Sapienza di Roma, si è tenuta a conclusione del Convegno curato da Tito Marci insieme a Paolo Favero sul tema Pluralismo Religioso, differenze culturali e stabilità sociale: che cosa ci insegna l’India del passato e del presente?