Una tradizione ormai secolare nega la possibilità e la stessa liceità di un rapporto biunivoco fra vita e biografia o, per meglio dire, fra il percorso di un individuo e la sua postuma proiezione in un tracciato lineare. È un diniego o piuttosto un divieto che trova nel proustiano Contre-Sainte Beuve (i cui lacerti sono editi solo nel ’54) la sua più argomentata giustificazione tanto che, per eccesso e insieme per paradosso, presto è divenuta di senso comune l’idea secondo cui non soltanto ogni biografia ma specialmente l’auto-biografia costituisce il genere letterario più ambiguo e mendace.

Non occorre essere dei positivisti per riconoscere che ogni vita trova comunque la sua scansione retrospettiva nell’atto del decesso e lì realizza una figura di senso, qualcosa di simile a un simbolo o forse a un oroscopo, che chiede mutamente di essere spiegato: Pasolini, per esempio, associava alla morte la tecnica del montaggio cinematografico mentre, e non molto distante da lui, Cesare Garboli rovesciava con arte sciamanica l’assunto di Proust per andare all’indietro, dall’opera firmata di un autore verso l’etimo psicologico e i misteri biografici della sua persona.

Stenografie di un destino
Quelli di Pasolini e Garboli sono nomi che non vengono a caso se riferiti a Emanuele Trevi, uno dei nostri più originali scrittori, di cui esce Due vite (Neri Pozza, «Piccola Biblioteca», pp. 131, € 12,50), ultima frazione di una trilogia che si era inaugurata con Qualcosa di scritto. La storia quasi vera di un incontro impossibile con Pier Paolo Pasolini (Ponte alle Grazie 2012) dedicato agli anni del suo apprendistato letterario, per proseguire con Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2018) invece riservato alla presenza incombente di Amelia Rosselli e alla amicizia, in realtà un vergiliato, del fotografo Arturo Patten il cui ricordo aleggia e si intride sia delle penombre umide sia delle solari cabalette di Pietro Metastasio fra le quinte di una Roma rediviva.

Quasi coetanei, entrambi scrittori e amici troppo presto perduti, Rocco Carbone (1962-2008) e Pia Pera (1956-2016) intramano Due vite, dove ancora una volta si incrociano la forma del memoir e una libera riflessione saggistica. Trevi vi riceve la lezione dei maestri ma la elabora mantenendo una concezione classica del rapporto fra vita e scrittura perché ne ammette la interdipendenza nello stesso momento in cui è indotto, tuttavia, ad accusare i limiti, soggettivi e oggettivi, di qualunque trascrizione. La parzialità di ogni conoscenza e anche dei ricordi personali pertanto ha il compito di tradursi in una totalità espressiva, nell’«ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre», scrive Trevi aggiungendo che «l’unica cosa importante in questo tipo di ritratti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità».

La capacità di stenografare in pochi segni un destino e di tracciare d’acchito una parabola esistenziale si confermano tratti elettivi della scrittura di Trevi, anche nei momenti di pathos e di nera malinconia che si accampano in Due vite, dove appunto si alternano i volti e le pagine di qualcuno: Carbone, autore dell’Apparizione (Feltrinelli 2002), che è l’emblema della compattezza meteoritica, massiccia e refrattaria al mondo, ossessionata dalla propria alterità tetragona, e di Pia Pera, tra le voci italiane di Puskin e di Lermontov, la cui sostanza appare arielica, cangiante nel suo profilo sempre nitido ma che in un attimo si oscura ponendosi a distanza astrale.

L’autore si trova esattamente nell’epicentro di un triangolo, investito dal flusso dei ricordi, dalla improvvisa ricomparsa di pagine scritte e documenti, flash, antiche sensazioni che il tempo ha occultato ma tornano al presente inavvertite e pari a righe scritte con l’inchiostro simpatico.

Nella nota che accompagna l’edizione del romanzo postumo di Rocco Carbone (che rimane tra le cose più belle dello scrittore calabro, Per il tuo bene, Mondadori 2009) Trevi aveva osservato, e pensava ovviamente al suo amico, che il dolore può essere un metodo e insieme il contenuto della conoscenza: doveva essere un aforisma poi a lungo meditato e metabolizzato perché Due vite gli dà ora piena evidenza. Si tratta di un dolore che la scrittura non potrebbe mai smaltire e però sa trasformare in qualcosa («qualcosa di scritto», verrebbe da ripetere con Trevi) che ha colore sombre ma anche tutta la vivacità, la dolcezza, di un nettare dell’intelligenza.

Le immagini di un congedo
Trevi muove proprio dal segno diametrale e in realtà complementare di quel duplice lascito, da un lato la corporeità di Carbone, la sua grana dura e scabra, la postura ascetica e totalmente introversa, insomma la «fobìa dell’ornamento», dall’altro, in Pia Pera, la ricerca erratica e la perpetua sperimentazione delle forme espressive, lo stato di fervore liquido, «la timida sfrontatezza» di chi ha il dono, purtroppo raramente ricambiato, del prendersi cura dell’altro. L’uno morto di incidente stradale, l’altra di una malattia degenerativa, la loro immagine rifrange sulla pagina da un unico specchio terminale dove si richiamano la pesantezza e la grazia letale del mondo. E resta il fatto che entrambi gli scrittori si sono congedati con immagini di straordinaria plastica potenza dove, finalmente, il disordine e la dispersione paiono redimersi: per Carbone è il calore bianco di una scrittura ormai defigurata, quasi lo scavo di uno scavo potenzialmente infinito, per Pia Pera è invece il giardino (cui ha dedicato fra gli altri Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie 2016) e perciò l’immagine cui la cultura occidentale ha delegato il senso medesimo della perfezione, della compiutezza senza residui.

Emanuele Trevi affida al presente il lascito dei suoi compagni di via nei modi che i latini definivano della pietas rerum, una espressione difficilmente traducibile dove, infatti, si assommano la generosità e il pudore.