Come ci avevano promesso le parole che Romulo Froes e Alice Coutinho le avevano tessuto addosso in uno dei tanti fiammeggianti ritorni, Elza Soares, «la donna della fine del mondo» ha cantato fino alla fine. E ancora due album – uno di inediti – e un dvd registrato senza pubblico al Teatro Municipal di Sao Paulo due giorni prima di morire, si aggiungeranno nel corso di quest’anno ai 35 titoli di una carriera lunga sessant’anni. Da che pianeta venisse la donna nera e favelada che si è fatta dea in un Paese, e in un mondo, razzista, maschilista, classista ma che, malgrado tutto, sa ancora – e oggi più che mai – costruire i propri miti e dedicargli cura, attenzione, rispetto, è la domanda prima che ricorre in tutti i ricordi che si leggono in ogni lingua su di lei.
La domanda che le fece Ary Barroso, non uno qualunque, l’autore, fra le tante, di Aquarela do Brasil, al suo apparire così tanto aliena, malvestita, stracciona, accolta dal pubblico come fosse un pagliaccio a una trasmissione di dilettanti. La risposta antologica, che lo tirava dentro, il compositore affermato, era «dallo stesso suo, seu Ary, il pianeta fame». Ma ancora di più, era quanto aveva detto prima «sono venuta per cantare». Perché quando Elza canta, quella voce unica, quel timbro roco che sa impastare tutto, dare corpo alla vita, attraversare i generi, spingere il samba nel jazz, tingere di nero la bossa, flirtare con il rock, mette tutti a tacere.

NEGLI ANNI 60 è il samba, declinato in tutti i modi e ognuno di quei modi è soltanto suo, la voce potente, scura, densa, strumento perfetto. Nel romanzo della vita, la compagna di Garrincha, astro discendente del firmamento del calcio, angelo storto e imperfetto, fragile «alegria do povo», lei la rovinafamiglie da stigmatizzare. Al volgere dei 70 sarà la dittatura, l’esilio, Roma, il Portogallo. «Se per caso tu arrivassi in un quartier residenziale di Roma e trovassi una partitella di bambini brasiliani per strada, non avresti dubbi: lì abitava Elza Soares con Garrincha, e una banda di figli e affiliati portati da Rio nel 1969». Se acaso voce chegasse, se per caso tu arrivassi, è il titolo del primo album di Elza Soares, 1960, e l’incipit usato da Chico Buarque, che ad arrivare e restare nella città eterna li aveva aiutati, per omaggiarla nei suoi 90 anni. Il ritorno in Brasile è ancora samba, il sambalanço funky di Elza pede passagem con i capelli afro in copertina del 1972 e il luminoso Malandro di Jorge Aragao del 1976, fra gli altri. Elza sa bene quale sia il suo «lugar de fala», lo spazio della sua parola, la collocazione esatta della sua arte.

DONNA, NERA, della favela: non ha mai avuto sconti. Negli anni 80 di nuovo a terra, verrà convinta da Caetano Veloso a non lasciare la musica, o il Brasile, e nel 1984 la sua voce è in Lingua, nell’album Velô del baiano, a domandarsi cosa possa la lingua, la lingua portoghese del sambodromo brasiliano. La lingua di Elza Soares ha potuto molto, anzi moltissimo. Ha potuto riprendere un brano dei Farofa carioca di un Seu Jorge degli esordi e rilanciarlo con tutta la forza contundente della «voce del millennio» decretata dalla Bbc nel 1999. «La carne più economica sul mercato è la carne nera», Elza arriva dove il gruppo carioca non era riuscito ad arrivare, la canzone diventa sua, è il 2002, l’ennesimo ritorno, Do Còccix até o pescoço è un disco bellissimo. Il brano d’apertura viene dal musical sulla vita della cantante ed è firmato da Chico Buarque, si chiama Dura na queda, è una che non atterri. Nel 2019, quando Elza Soares ritirerà fuori il pianeta fame a titolare il suo ultimo disco di studio, la fame non è più quella della Radio Tupi del 1953, di vincere il premio per dar da mangiare al figlio che le era rimasto dopo averne persi due, fame di una ragazzina del morro data in sposa a 12 anni, madre a 13, vedova a 21, ma è fame che – dirà -«cambia aspetto, ma non ha fine», «fame di cultura, di dignità, istruzione, uguaglianza e molto altro». Il primo verso che canta in Planeta Fome è Io non soccomberò. Ha 89 anni, non ha problemi a mostrare la voce più fragile.
La donna che si è fatta dea ha calcato i palchi internazionali più prestigiosi arrivando in sedia a rotelle per una schiena che non le permetteva più di stare in piedi e si è assisa in un trono al centro di una scenografia imponente. Itamar Assumpçao è stato fra quanti le hanno lasciato una canzone prima di morire, lei l’ha cantata nell’omaggio al compositore nel 2010. Si intitolava Elza Soares: «Da quando ho coscienza di me, sambo, faccio ciò che mi piace, my soul is black, la mia anima è calda, fra le armi bianche, chimiche, fumanti, la musica è la mia preferita. Elza Soares da vida».