«Alla fine mi sono stancato di tutto. La donna che amavo, Priscilla, se n’era andata. La musica non la sentivo più mia. Nemmeno io ero più me stesso. Ero solo un fantoccio. Gli amici mi stavano spremendo come un limone. Me ne sono andato e non mi è dispiaciuto. Mi drogavo… volevo uscirne. C’era un tizio di nome Sebastian Haff, un imitatore di Elvis, il migliore. Ha preso lui il mio posto. Aveva problemi di cuore e anche a lui piacevano le droghe. È stato lui a morire, non io. E io ho preso il suo posto».

ELVIS PRESLEY non è affatto morto il 16 agosto del 1977 nel bagno di Graceland, la villa-museo di Memphis in cui aveva deciso di celebrare il proprio culto mentre era ancora in vita, stroncato da una dose eccessiva di barbiturici e chissà quali altre pasticche. È vivo e vegeto anche se non si può proprio dire che goda di ottima salute: si è svegliato in una casa di riposo per anziani un po’ svitati del Texas orientale, accanto a un nero che è convinto di essere John Fitzgerald Kennedy e ad un altro balordo che si crede un John Dillinger sopravvissuto alle raffiche di mitra dei federali. Il personale lo punzecchia per farsi raccontare ancora una volta questa storia incredibile: il Re del Rock’n’Roll sopravvissuto per decenni alla sua stessa scomparsa che ha tirato avanti nel circuito dei sosia che ne perpetuano il mito esibendosi nei suoi successi con abiti e pettinatura ripresi pari pari dai suoi show.

Joe R. Lansdale, l’autore di questa rivisitazione ucronica della traiettoria di Elvis, contenuta in Bubba Ho-Tep (Magenes, 2003) è un ragazzo degli anni Cinquanta, cresciuto a musica e fumetti, fantascienza e horror. Per la sua generazione i teenagers sono passati dall’essere i folk devils dell’America bigotta e puritana che guardava sbigottita a «the pelvis» e alle promesse vietate ai minori del suo ancheggiare, all’interpretare fino in fondo il ruolo degli «alieni» rispetto agli standard della società statunitense dell’epoca, protagonisti di quel filone della science fiction cinematografica che immaginava i marziani scesi dalle astronavi con ciuffo impomatato e jeans alla caviglia proprio come il pubblico più affezionato del Re: quello che lui e gli altri idoli del rockabilly avevano di fatto inventato, dando così il via ad un mercato e un’industria dell’intrattenimento che per la prima volta faceva delle giovani generazioni dei veri consumatori.

MA L’ELVIS ZOMBIE o mutante di Lansdale, che ha trovato un modo originale per aggirare la fine della sua eterna giovinezza, imbolsito, tossico, nostalgico di una stagione d’avanguardia musicale ormai superata dal tempo e da nuovi ritmi, incarna a pieno l’ambivalenza e la fragilità dell’icona proletaria chiamata per quanto possibile a smentire le certezze del sogno americano che Elvis rappresentò. Non un simbolo politico, beninteso, ma qualcosa di altrettanto dirompente e selvaggio per gli standard e le regole, scritte o meno che fossero, dell’epoca.

Nascere a Tupelo, Mississippi, nel 1935 in una famiglia di bianchi poveri era certo più facile che vedere la luce tra gli afroamericani del luogo, la cui vita poteva essere appesa alle bizze di un bianco ubriaco: ancora nel 1955 Emmett Till fu linciato a soli 14 anni per delle accuse del tutto infondate. Eppure oggi la celebre New Encyclopedia of Southern Culture, che racconta molto di ciò che c’è da sapere sul Mezzogiorno d’America, celebra Elvis sia nel volume dedicato alla «Race» (2013) che alla «Music» (2008): in entrambi i casi l’ampia menzione riguarda proprio il ruolo inedito, spiazzante, provocatorio che il Re giocò perlomeno nella sua prima stagione.

Baz Luhrmann, il regista australiano del film biografico a lui dedicato quest’anno, ha parlato forse non a caso di Elvis come «il primo punk, ben prima di Sid Vicious e Johnny Rotten». E Ian Penman, uno dei più raffinati critici musicali britannici, nel ritratto dedicato a Presley nella raccolta Mi porta a casa, questa curva strada (Atlantide, 2020) indaga una prospettiva analoga, interrogandosi in questi termini: «Forse ciò che la cultura di massa americana abbracciò e accettò davvero in Elvis fu un magico e inaspettato capovolgimento, la combinazione di garbatezza nera e carnalità bianca».

ANCHE NELL’INCHIESTA che Sally A. Hoedel ha dedicato, attraverso decine di interviste e un’ampia messe di documenti, a ricostruire il profilo dell’«uomo» oltre la soglia del mito – Elvis (Newton Compton, pp. 348, euro 9,90) – emerge la straordinarietà del personaggio, il cui impatto culturale «influenzò gli americani e cambiò il mondo intero». Nel libro, uscito in concomitanza con il film e in vista dell’anniversario della scomparsa, torna a più riprese l’immagine di una figura fragile che resse a fatica l’impatto non tanto con il successo, ma con l’industria dell’intrattenimento.

A mediare, speculando perlopiù sulle difficoltà di quella relazione, la figura di Tom Parker – cui il giornalista del Mississippi James L. Dickerson consacra Elvis e il colonnello (Rizzoli, pp. 290, euro 18). Il manager che portò Elvis dalla Sun record di Memphis alla Rca a New York, e di lì al mondo, aveva iniziato nel circuito degli spettacoli itineranti nel profondo Sud, al circo e cercando di sfruttare ogni «fenomeno da baraccone» gli capitasse a tiro. Il Re del Rock’n’Roll fu il suo business più riuscito e più duraturo. Solo che Elvis di quella tradizione della cultura popolare impersonava l’anima a un tempo più selvaggia e più sincera. Un po’ come i protagonisti delle chiese dei serpenti che ogni domenica mettono a repentaglio la propria vita davanti ai fedeli per scacciare il male e proteggere la propria innocenza.