Basta il soprannome: The King, semplicemente. Elvis è uno di quei pochi personaggi realmente iconici, leggendari e immortali per cui non sono necessarie presentazioni.
Tutti conoscono il suo stile, la sua voce, il suo look. Sono passati più di quarant’anni dalla sua morte ma nel mondo della musica c’è ancora chi si ispira a lui, e non c’è paese in cui almeno una volta all’anno non si tenga un raduno di suoi fan, un concerto in sua memoria o una serata tributo. È in queste occasioni che facilmente si possono incontrare i cosiddetti «impersonator»: persone che hanno fatto di Elvis il loro stile di vita, e non solo si travestono per l’occasione, ma vivono la vita di tutti giorni nei suoi panni: ciuffo, basettoni e eccentrici vestiti in stile rockabilly.
UN PURO CASO 
Quello dei sosia di Elvis è un fenomeno che non smette mai di stupire e che ha attirato l’attenzione di alcuni artisti – che hanno preso l’ispirazione per divertenti progetti fotografici – e addirittura di grandi aziende come la Apple, che recentemente ha lanciato uno spot pubblicitario con protagonisti diversi imitatori di tutto il mondo che si ritrovano a cantare, in videoconferenza, sulle note di There’s Always Me.
La «commerciabilità» e diffusione di massa dell’icona Elvis coincide, però, anche con i suoi aspetti più folli e stralunati. Un mondo di storie vere e leggende metropolitane, di fatti curiosi, bizzarri e incredibili che riguardano la sua figura e che magari tornano alla luce diversi anni dopo il loro reale – o, in alcuni casi, presunto – accadimento. Una delle storie più recenti emerse da questo mondo è quella che rivela il nome del primo vero impersonator del re del rock’n’roll, l’imitatore originario: nientemeno che Elvis stesso.
La storia, come accade spesso in questi casi, inizia per puro caso qualche anno fa, quando Stephen Auerbach, un regista televisivo Usa, trova in un vecchio armadio dello zio, Ben Weisman, alcuni nastri registrati più di 50 anni prima. Per chi non lo sapesse, Weisman era uno degli autori preferiti di Elvis, che ha interpretato ben 57 delle sue composizioni, tra cui alcuni classici come Got a Lot o’ Livin’ to Do e Rock-a-Hula Baby. I nastri trovati nell’armadio contenevano preziose registrazioni di alcuni brani di Presley, perlopiù appartenenti alle colonne sonore dei tanti film hollywoodiani che lo vedevano protagonista negli anni appena successivi al suo congedo dal servizio militare, nel 1960. Il fatto curioso, però, è che in quei brani, perfetti in tutto e per tutto, la voce non era di Elvis, ma di Glen Campbell, noto cantante country (1936-2017). In sostanza, in quegli anni densi di impegni in cui The King si divideva tra set cinematografici, ospitate televisive e concerti in giro per gli Stati Uniti, una squadra di turnisti, fonici e produttori lavorava sulle sue canzoni. C’era chi scriveva i testi e la musica, come Ben Weisman, chi pensava agli arrangiamenti e chi agli strumenti. E poi c’era chi, come Glen Campbell, interpretava le nuove canzoni cercando di imitare al meglio lo stile di Elvis: stessa tonalità, cadenza e intonazione. In questo modo, Presley doveva solamente presentarsi in studio e imitare la traccia vocale, una sorta di linea guida, gentilmente lasciatagli dall’«Elvis prima di Elvis». Grazie a questo circolo di imitazioni reciproche era possibile risparmiare tempo prezioso e anche tanto denaro, quello necessario all’affitto e all’utilizzo dei migliori studi di registrazione d’America.
IL PROFESSORE MATTO
È lo stesso Ben Weisman, che Presley soprannominava con stima e affetto Mad Professor, a spiegare come funzionava il tutto: «Scrivevo per Elvis in una maniera totalmente differente rispetto a tutti gli altri artisti. Per le sue canzoni serviva una combinazione unica di blues, country, rock e pop: in pratica, dovevo scrivere immaginando di essere nei suoi panni. Dopo aver completato una canzone, registravo un demo utilizzando la voce di un cantante che sapeva copiare il suo stile alla perfezione; preparavamo quindi la sezione ritmica che gli piaceva, con gli stessi strumenti e gli stessi cori in sottofondo. Il risultato finale era una produzione perfetta e cucita ad arte, pronta ad essere completata da lui».
Glen Campbell era il pupillo di Elvis, anche se il loro rapporto è sempre stato «dietro le quinte». Campbell, infatti, era un turnista eccezionale, che ha avuto l’onore di lavorare con i più grandi del suo tempo. Oltre allo speciale rapporto con Presley, infatti, poteva vantare altre collaborazioni di altissimo livello: innanzitutto quella con Phil Spector e la sua Wrecking Crew – il gruppo di turnisti che per primo sperimentò il cosiddetto Wall of Sound, una rivoluzionaria tecnica di registrazione – e poi, dal 1964 al 1966, con i Beach Boys, nel ruolo di chitarrista aggiunto, con i quali registrerà anche alcuni brani di Pet Sounds, uno degli album più influenti di sempre.
VIVA LAS VEGAS
È risaputo anche che Elvis, che lo conobbe sul set di Viva Las Vegas, il film del 1964, lo volesse ingaggiare come chitarrista della sua band, la TCB Band (l’acronimo stava per Taking Care of Business, uno dei motti preferiti da Elvis) ma Glen rifiutò gentilmente: preferiva continuare la sua carriera da solista – che alcuni anni dopo lo porterà ad entrare nella Hall of Fame del country Usa – e da conduttore televisivo di un programma sulla Cbs, The Glen Campbell Goodtime Hour. Fu così che il suo posto nella band venne preso da James Burton, un’altra vera e propria leggenda del rock’n’roll.
Ma Campbell non era l’unico. Sono tanti i musicisti che hanno ricoperto il delicato ruolo di «Elvis per Elvis»: da Mort Schuman a P.J. Proby, passando per Otis Blackwell, Delaney Bramlett e altri ancora. E tante sono anche le storie che li riguardano: Proby, ad esempio, si narra venisse pagato solamente dieci dollari a registrazione. Una miseria, se non fosse che negli anni successivi, grazie al suo talento nell’imitare Elvis, riuscirà a costruirsi una carriera di tutto rispetto. Nel 1977, infatti, reciterà la parte di un appesantito Presley nel famoso e apprezzato musical Elvis scritto da Jack Good, produttore inglese celebre tanto per i suoi successi quanto per i suoi flop; tra questi non si può non citare Catch My Soul, un’ambiziosa trasposizione cinematografica dell’Otello di Shakespeare interpretata, tra gli altri, da artisti del calibro di Richie Havens – il noto cantautore/chitarrista della scena folk del Greewich Village negli anni ’60, colui che salirà per primo sul palco di Woodstock – e Tony Joe White, l’autore di Polk Salad Annie, hit che verrà portata al successo mondiale proprio grazie a una cover di Elvis.

Lo scorso novembre i nastri ritrovati da Stephen Auerbach sono stati restaurati e finalmente pubblicati in una completa e straordinaria raccolta, intitolata Glen Campbell Sings for the King, in cui si possono sentire tutti i demo che fino a poco tempo fa erano stati ascoltati solamente da Presley e pochissimi altri.
Un tributo dovuto e imperdibile, non solo per i fan più appassionati della «fase cinematografica» del re, ma anche per restituire a Campbell un doveroso e meritato riconoscimento. Tra i grandi pezzi inclusi nella raccolta – I’ll Be Back, Easy Come Easy Go, Do the Clam per citarne alcuni – ne spicca uno particolarmente emozionante: We Call on Him. Si tratta di un duetto virtuale, ricostruito digitalmente, in cui si possono sentire le voci di Campbell e di Elvis alternarsi in un’intima interpretazione gospel accompagnati solo da un pianoforte. Come a ricordarci che quasi sempre, dietro ai migliori campioni, ci sono le fatiche di grandi – e spesso poco considerati – gregari.