Weird e Eeire, due termini difficilmente traducibili in italiano per il significato molteplice, inafferrabile che hanno anche in inglese. Indicano l’ossessione per ciò che è strano, ma anche per le cose fuori posto, fuori dalla norma. Possono indicare inoltre un sentimento di straniamento cresciuto all’interno di una condizione familiare o di codici relazionali condivisi seppur insoddisfacenti per chi si sente costretto a farli propri. È attorno a questo grumo di significati e di esperienze che si dipana l’ultimo scritto di Mark Fisher, figura intellettuale inglese diventato adulto durante il lungo inverno di Margaret Thatcher e che ha avuto la sua educazione sentimentale alla politica radicale durante il new labour di Tony Blair.

FISHER SI LAUREA all’università di Warwick, dove fa gruppo con intellettuali che cominciano a studiare la teoria cibernetica considerata uno degli architrave di quella network culture che vede il personal computer come una macchina universale che può trasformare il capitalismo, aprendo così possibilità inedite di una liberazione dalla necessità. Fisher è tuttavia convinto che l’angolo prospettico dal quale analizzare tale mutamento sono i prodotti della cultura di massa e popolare – la fantascienza, l’horror, i talk show televisivi, i programmi di intrattenimento – oppure la scena musicale underground. Comincia così a scrivere su riviste radicali saggi dedicati ai rave, considerati «zone temporaneamente autonome» dal potere costituito. Oppure passa al setaccio, fotogramma per fotogramma, film inglesi di fantascienza di successo degli anni 60 e 70, senza però dimenticare che la saga di Guerre Stellari continua a restituire quell’ambivalenza tra entertainment (film di evasione, dunque) e allegoria di un sistema di potere globale abilmente occultata attraverso l’uso massiccio degli effetti speciali quasi del tutto assenti nei film dei decenni precedenti. Facilita inoltre la diffusione nel Regno Unito delle tesi di Pierre Levy sull’intelligenza collettiva che prende forma nella nascente Internet.

Come Levy, anche Fisher crede che la tecnologia digitale può essere il mezzo per sovvertire le regole plumbee della società di massa. E quando il filosofo francese fa sua l’ideologia dell’individuo proprietario, Fisher prende le distanze da Levy senza tuttavia rinnegare l’interesse per la controcultura digitale. Legge freneticamente le opere di Alain Badiou, Frederic Jameson, Jacques Derrida e Gilles Deleuze. Si addentra nel laboratorio marxiano della critica dell’economia politica, mostrando interesse per i testi tradotti del marxismo autonomo italiano (Renato Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri, Franco Berardi Bifo). È uno dei primi intellettuali europei – l’altro è sicuramente Bifo – che invita ad analizzare l’infelicità e la depressione dei militanti come nodo politico da sciogliere e non solo come manifestazioni del potere coercitivo del neoliberismo.

MARK FISHER MORIRÀ SUICIDA nel 2017. La sua morte passa quasi inosservata. Solo nella scena radical europea il gesto di porre fine alla propria vita pesa come un macigno, quasi che quel suicidio sia la conferma della massima thatcheriana There is no alternative che Fisher aveva considerato come il problema teorico da risolvere per cercare il punto di fuga da un mondo che, appunto, non prevedeva un «fuori» dal capitalismo. Lo studente promettente che aveva girato le spalle a una sicura carriera accademica aveva mandato alle stampe tanti saggi brevi e un libro che aveva suscitato discussioni anche aspre ma anche notevoli consensi. Realismo capitalista, questo il titolo (il libro è stato tradotto da Nero edition), era tuttavia considerato uno dei pochi testi che aveva provato in Inghilterra a fare i conti con l’egemonia culturale del neoliberismo.

Per Fisher, il neoliberismo era, meglio è, un ordine del discorso che incontra il consenso di massa non perché la sinistra è stata attratta dal canto delle sirene del capitale, ma perché è anche un dispositivo filosofico che ha avuto la capacità di presentare i balbettii di questo o quel teorico critico o l’azione dei movimenti sociali come materiali per sviluppare innovazioni tecnologie, organizzative, sociali. Il neoliberismo non nega il conflitto sociale e di classe, considerandolo l’humus indispensabile per l’innovazione. Alcuni anni dopo, due «allievi» di Mark Fisher, Nick Srnicek e Alex Williams, riprenderanno idealmente il libro Realismo capitalista là dove aveva finito per invitare i movimenti sociali a Inventare il futuro proprio alla luce di alcune tendenze del capitalismo contemporaneo: l’automazione che coinvolge sia il lavoro manuale che quello cognitivo e la possibilità di relegare a dimensione marginale del vivere in società proprio il lavoro, assegnando al reddito di cittadinanza l’unica politica realistica per gestire la transizione a un mondo senza lavoro. Al di là comunque delle conclusioni «pessimiste» del Realismo capitalista, le riflessioni di Fisher meritano attenzione per il metodo che propongono, ad esempio, in questo The Weird e the Eeire (minimun fax).

IL PERTURBANTE, lo straniamento, il fuori posto sono le costanti nella formazione dell’opinione pubblica, cioè nella costruzione dell’egemonia culturale in una società capitalistica matura. Da qui la constatazione della scomparsa delle distinzioni tra cultura alta e cultura bassa, tra riflessione erudita e semplificazione mediatica. Tutto ciò rappresenta delle variazioni nella proliferante tassonomia dei generi e dei sottogeneri dell’industria culturale.
Il Weird e l’Eeire sono dunque il perturbante, il fuori posto, lo straniamento, l’«extraordinario» che l’industria dell’entertainment veicola per innovare i manufatti, cioè le merci culturali prodotte indipendentemente dal medium utilizzato. Può essere un libro, un film, un brano musicale consumato attraverso la carta, un computer, uno smartphone o la tv, ma in ogni caso sono manufatti che servono a costruire il proprio mercato, perdendo così il potere trasformativo che la cultura dovrebbe avere. In altri termini, tutto ciò è un colpo mortale inflitto alla visione illuminista che vedeva nella cultura il viatico di un «buon vivere» affrancato dall’oppressione e dal potere costituito.

LE PARTI PIÙ AVVINCENTI del libro sono quelle dedicate ai romanzi di Lovercraft, di H. G. Wells, di Philip K. Dick, di Margaret Atwood; o quando si analizzano i film della serie di Quatermass, di Lynch, di Fassbinder, di Kubrik, di Nolan. Scrittori e registi che hanno cercato di fare i conti con il Weird e l’Eeire, che diventano rispettivamente il «fuori posto» o la «calma inquietante» del vivere in società, ma che l’industria culturale presenta come variazioni del sempre eguale indispensabili per soddisfare nicchie di mercato sempre in divenire. La fantascienza, l’horror, il fantasy sono così tasselli di una logica culturale del capitalismo che ha fatto propria l’idea di fine della storia e del progresso. Il neoliberismo sussume come sua componente la fine della concezione lineare e progressiva dello sviluppo. Dunque svelare qual è la logica culturale del capitalismo, vedere nella proliferazione dei generi la manifestazione della morte di un’opinione pubblica univoca e massificata. Più o meno le stesse dinamiche e tendenze presenti in Rete, che si basano sulla costituzione e scomposizione di «comunità di simili». La discussione pubblica tramonta per lasciare il posto all’incontro di chi la pensa alla tessa maniera. I social media, i social network e l’industria culturale non fanno che favorire e radicalizzare questa tendenza.

C’è sempre un però rispetto a ciò: la frammentazione andrebbe accolta come il limite da violare per dare forma a un’inedita possibilità di trasformazione radicale dei rapporti sociali. In fondo è ciò che accade ai protagonisti di Interstellar, il film diretto da Christopher Nolan. Nella compresenza di passato, presente e futuro non c’è la nichilistica fine della storia esemplificata dall’apocalisse ambientale della Terra, né l’impossibilità di trasformare la realtà dopo averla interpretata, rifugiandosi in simulacri di zone temporaneamente autonome, bensì il principio di realtà indispensabile per avviare quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti.