Una forte inclinazione pedagogica, comprese le ripetizioni classiche nella prosa che i dirigenti comunisti hanno imparato da Togliatti, si può certo perdonare a uno che è praticamente nato mentre sua madre ascoltava un comizio della «maestra» Ada Gobetti – lo racconta Luciano Barca nel primo volume delle sue eccezionali memorie. Fabrizio Barca cita suo padre nell’introduzione al testo pubblicato ieri (scarica qui il pdf) – «memoria politica» la chiama – pagando subito tributo alla «vicinanza profonda con un protagonista della migliore politica». Poi si lancia in un’operazione assai spericolata, nell’anno di grazia 2013, ventesimo della «seconda Repubblica» e primo dello «tsunami» grillesco: l’elogio del partito politico. Quello che Bersani ha tenuto sempre come nota di fondo nel suo messaggio, fermandosi però sulla soglia dell’omaggio alla «ditta», lo fa adesso un «tecnico» del governo Monti. Che come tecnico Bersani non ha potuto candidare alle elezioni di febbraio ma che da tecnico si è iscritto due giorni fa al Pd. E comincia dalla demolizione dei «tecnocrati».

La delega ai tecnocrati, scrive Barca, cioè a quelli che si suppone abbiano in tasca le soluzioni neutrali e tecniche ai problemi complessi della modernità, è un errore che accomuna il neoliberismo alla socialdemocrazia. La conoscenza necessaria, invece, «è dispersa fra una moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere». Non solo, con un passaggio che riporta in auge il valore del conflitto, nella versione del conflitto dei saperi (la radice, familiare, è ingraiana), Barca spiega che la conoscenza neppure esiste «quando sorge un problema o un’opportunità; essa scaturisce piuttosto come “innovazione” dal confronto e dal conflitto fra molteplici soggetti che possiedono conoscenze parziali». Il luogo dove tutto questo accade (deve accadere) è il partito. Che è dichiaratamente diverso dal partito «di lotta» e «di linea», ma viene così ad essere immaginato anche assai distante dal gramsciano intellettuale collettivo, dove si concreta la volontà della classe. No, secondo Barca il partito è più un «circolo» di confronto (gli studi in Inghilterra?), il luogo dove «conoscenze parziali, molteplici e limitate» si incontrano; un partito – è la definizione – «palestra».

In parallelo al fuoco sul partito, nel testo di Barca c’è grande attenzione alla macchina pubblica. Lo stato, cui torna a riferirsi con l’impronta dell’alto funzionario che ha scalato con merito e dedizione l’amministrazione pubblica. Per intendere la centralità che nelle sue tesi Barca affida alla (buona) amministrazione pubblica la traccia è nella citazione che più ha sollevato commenti (ironici), quel «catoblepsismo» che viene dal grande banchiere pubblico Raffaele Mattioli (i riferimenti sono tutti assi blasonati) che tirò fuori la mitica bestia per criticare il legame perverso tra banche e industrie nella crisi del 1930-31. Oggi, per Barca, la «fratellanza siamese» è tra i partiti e lo stato «arcaico». «Il peculiare tracollo dei partiti storici a inizio anni ’90 – scrive – ha trovato nella fragilità e arretratezza della macchina pubblica italiana le basi per una fratellanza siamese che non ha paragoni altrove».

La rottura di questo circolo perverso, dove i partiti – anche a causa del finanziamento pubblico – sono diventati una cosa sola con lo stato («partitocrazia», dicono altri), lo scioglimento della «fratellanza» deve partire secondo Barca inevitabilmente dai partiti. Rinnovati, grazie al «confronto pubblico informato» che diventa la ragion d’essere delle associazioni politiche. «Mobilitazione cognitiva» la definisce Barca, avvertendo che la dialettica dev’essere rivolta anche agli esterni. E le primarie? Ma sì, vanno bene anche le primarie, «possono produrre buone sorprese». Anche se nei partiti che non si sono ancora rinnovati «tendono a dare legittimità al cesarismo». E questo a Bersani ancora non lo aveva detto nessuno.