Brian Eno sa che il tempo non si può fermare. Ma la sua ossessione è quella di rallentarlo. Curioso paradosso per l’artista che ha composto il suono di avvio di Windows 95, che ha scritto musica per telefoni cellulari e videogames e nel 2006 ha creato «77 Million Paintings», un programma che genera video e musica per personal computer. La velocità tipica del XXI secolo dovrebbe essere il suo habitat naturale, ma se gli chiedete perché ha creato le opere esposte nella sua nuova mostra, Light Music, vi risponde: «Ho bisogno di qualcosa che rallenti il tempo. Sento di vivere troppo velocemente». Un modo per allontanare l’idea della morte, forse: «Inutile girarci intorno. Dopo i 40 anni, tutto quello che fai parla di morte. Ci pensi molto di più».
Quindi mettete via i vostri smartphone e prendetevi il tempo necessario per visitare la piccola esposizione che dallo scorso 21 maggio e fino al 30 settembre è presente alla Galleria Valentina Bonomo di via del Portico d’Ottavia 13, a Roma. Se andrete di corsa farete la figura del visitatore londinese che lo ha avvicinato dicendogli: «Carine le tue opere, ma sarebbe meglio se cambiassero colore».
L’origine di Light Music va cercata nei lavori di «generative music» fatti per l’Ospedale Montefiore, nella regione inglese del Sussex, con la speranza di poter contribuire a creare un ambiente che sostenesse i pazienti nel loro percorso di guarigione. Il progetto unisce due tipologie di lavori: light boxes e speaker flowers: I primi sono strutture quadrangolari su cui la luce cambia direzione e intensità autogenerando infinite combinazioni di ombre e colori attraverso un intreccio di luci al led. Gli speaker flowers sono minuscoli diffusori a forma di fiore, montati su lunghi steli metallici, che oscillano in base al suono che emettono: una composizione musicale differente per ciascuno stelo. L’esperienza è la somma delle due emozioni: visiva e uditiva; nelle parole dell’artista: «Tutto cambia impercettibilmente, in modo casuale e inesorabile, come nella vita». Non c’è inizio, né fine. Il senso del tempo tende a perdersi in uno spazio etereo. Un’utopia magari, ma vale la pena tentare, sperando che il visitatore accanto a noi non spezzi l’incantesimo ricevendo un WhatsApp o magari non abbia il modello di Nokia le cui suonerie sono state composte dallo stesso Eno.
Contraddittorio? Forse, ma l’artista inglese convive serenamente con le trappole della modernità: «Un mio amico scienziato, Danny Hillis, mi ha detto, ‘Tecnologia è il nome che diamo a qualcosa che ancora non funziona come vorremmo’. Il pianoforte a coda era alta tecnologia, così la penna a sfera o i tappi delle bottiglie di Champagne. Quando impariamo a far funzionare le cose, smettiamo di vederle come tecnologia». «Le opere esposte in questa mostra spiegano bene dove sono arrivato nella mia evoluzione – spiega ancora Eno – fatta di una lunga serie di tentativi di fare dipinti in movimento, che io definisco ‘ambient paintings’. Durante la mia carriera ho fatto musica sempre più lenta, quasi immobile, come un quadro. E contestualmente, arte visuale attiva, un po’ come se fosse musica. Ora non ho fatto altro che unire le due forme».
Anni luce musicali, «light years in music» si potrebbe parafrasare, sono passati da quando Eno vestiva i panni della rockstar glam con i Roxy Music e anche agli albori della sua carriera solista con il suo primo singolo Seven Deadly Finns, e l’album successivo (che non lo includerà) Here Come the Warm Jets, del 1974. Anche lì, il suo ruolo principale era quello di sperimentatore e creatore di suoni, ma in un ambito pop-rock molto più tradizionale, sebbene stesse già cominciando la produzione di album sperimentali (No Pussyfooting con Robert Fripp).
I colori avevano già allora un ruolo importante, ma più che arte si trattava di make-up. Divertente scovare una sua intervista del 1973 nella quale spiegava in dettaglio a una sua fan cosa usasse per truccare il suo volto. E non solo per le performance con i Roxy Music, ma anche nella vita quotidiana. «Il mio make-up è più o meno lo stesso on e off stage – spiegava, per poi passare a descriverlo nel dettaglio -. Uso una vasta selezione di prodotti di diverse marche, Quant, Revlon, Schwarzkopps, Yardley. Scelgo sul momento il colore che mi stimola di più. Sugli occhi uso sei colori diversi di tre marche differenti. Le matite colorate Quant, ora sono le mie preferite».
Da allora Eno ha smesso i trucchi e iniziato un percorso sperimentale che l’ha portato a collaborare con artisti e musicisti a 360 gradi, unendo progressivamente musica e arte figurativa, da sempre i suoi due grandi amori, esponendo, dalla fine degli anni ’70, a Tokyo, Cape Town, Rio de Janeiro, New York, Londra, Madrid.
Studente d’arte negli anni Sessanta, non riusciva a scegliere tra le due discipline, finché l’amore per i Velvet Underground, così strettamente legati alla Factory di Andy Warhol non gli fece capire che forse le cose potevano andare d’accordo. Non è un caso che il suo ultimo disco, The Ship, contenga una cover di I’m Set Free del gruppo di Lou Reed (registrata dodici anni fa) e sia al tempo stesso nato come un lavoro per un’installazione a Stoccolma, per poi cambiare natura: «Ho ritrovato all’improvviso il desiderio di cantare perché avevo composto canzoni che all’interno dell’opera erano quasi delle sculture da esplorare e ho capito quello che forse avrei dovuto capire quarant’anni fa: la musica ambient e la forma canzone possono coesistere. Inoltre invecchiando ho scoperto di poter cantare su un registro più basso, molto adatto alla musica che faccio ora».
E l’album è persino balzato al primo posto in Inghilterra nella classifica Dance and Electronic. «Provate a ballare con questa musica, se ci riuscite», dice un divertito e incredulo Brian Eno. Ballare, in effetti, non è semplicissimo al ritmo quasi inesistente del creatore della ambient music, del catalizzatore della no wave, del manipolatore di suoni amato da David Byrne, Peter Gabriel, U2, Laurie Anderson e soprattutto David Bowie che lo volle al suo fianco per la celebre trilogia berlinese (ma guai a chiedergli un ricordo del Duca Bianco, non ne può più di rispondere a questa domanda).
Tra i molti musicisti che possono vantare fruttuose collaborazioni con Eno, c’è anche Teresa De Sio. Per ben due progetti: Africana nel 1985 e per La storia vera di Lupita Mendera, contenuta nell’album Sindarella Suite del 1988. Il suo rapporto con l’Italia è però indissolubilmente legato alla celebre mostra-evento Mimmo Paladino/Brian Eno «A work for the Ara Pacis», nel maggio 2008, il primo evento site specific ideato per gli spazi del Museo dell’Ara Pacis, su musiche composte da Eno per le sculture di Paladino.
Ma non c’è solo Light Music: all’interno della mostra trovano spazio anche due opere lenticolari, Center Decenter e Tender Divisor, piuttosto belle forse non proprio coerenti con il resto dell’esposizione. D’altra parte, per la seconda volta in assoluto nella carriera di Eno, le opere esposte sono in vendita (tra gli 11 e i 13 mila euro) e come spiega ai giornalisti presenti in galleria, non ha nessun problema con la mercificazione del proprio lavoro, basta che un artista non alteri la natura della sua opera per avere mercato. «E io mi alzo ogni mattina facendo solo quello che voglio. Non è meraviglioso?».