Il recente volume che raccoglie i Pareri editoriali per Einaudi di Franco Fortini (Quodlibet, pp. 245, euro 20) documenta per la prima volta un aspetto forse poco conosciuto del lavoro intellettuale dello studioso fiorentino scomparso trent’anni or sono. Si tratta della sua attività di consulenza per la casa editrice Einaudi. Questo impegno si è sviluppato in due momenti temporali distinti: dal 1947 al 1963, e in seguito dal 1978 al 1983. Il secondo periodo è stato quello senza dubbio più prolifico – un centinaio di schede contro le diciassette del primo. Lo stacco di quindici anni tra le due fasi è giustificato anche dal fatto che fra il 1962 e il 1973 Fortini svolse lo stesso tipo di lavoro per la Mondadori.

Mentre la rottura che si evidenzia nel dicembre del 1963 matura per varie divergenze non più sanabili, culminate infine nel noto «affaire» Fofi, col rifiuto da parte della casa editrice della sua inchiesta sull’immigrazione meridionale in Fiat, nella seconda fase della sua esperienza all’Einaudi Fortini si pone al centro di un gruppo di consulenti di eccezionale vaglia come Pier Vincenzo Mengaldo, Alfonso Berardinelli e Walter Siti. E qui, al lavoro sulla saggistica e sulla prosa si aggiunge quello sulla poesia. Fortini sarà uno dei più convinti sostenitori di un progetto di lungo respiro volto alla ricerca di nuovi poeti italiani giovani. Le due motivazioni che adduce a sostegno sono per lo meno lungimiranti.

IL LETTORE MODERNO è ormai un soggetto «che scrive e non solo che legge». E poi è necessario allontanare dall’Einaudi la fama di casa editrice «vegliarda e nemica del progresso». Nasce così la «gloriosa» serie antologica dei Nuovi poeti italiani, animata da giovani che, come si chiarisce nella puntuale introduzione di Riccardo Deiana e Federico Masci, siano «promettenti o comunque meritevoli, fuori dal canone, geograficamente e editorialmente decentrati». Fortini dimostra un notevole intuito editoriale, comprovato dal successo e dalla longevità dell’iniziativa, tutt’ora in vita.

Ma qui è necessaria una notazione di carattere più generale. A partire dalla piena coscienza del fatto che l’intellettuale lavora nell’industria della cultura sempre più in posizione subalterna, senza poterne controllare cioè le dinamiche profonde e gli indirizzi fondamentali, Fortini sceglie di stare dentro la contraddizione fra valori «poetici» e mercato, piuttosto che semplicemente subirla. Preferisce vivere e osservare in prima persona i cambiamenti socioeconomici che si riflettono sulla produzione letteraria, o su ciò che altrove chiamerà «le forme presenti di produzione-consumo». E dunque, mentre impronta il suo lavoro di consulenza a criteri selettivi abbastanza chiari e fermi, spesso esprime giudizi non assoluti, ma duttili.

NON SI DIMOSTRA né apodittico, né pregiudizialmente avverso rispetto a opere di critica letteraria che vanno in direzioni ideologiche diverse o addirittura antitetiche alle sue, a patto di riconoscerne lo spessore e l’utilità per il dibattito pubblico. Un esempio eclatante è quello di Blanchot, esaminato in una scheda del 1961, per il quale Fortini si sofferma sui concetti di «leggibilità» e di «utilità». Qui come altrove, posto di fronte al materiale propostogli, riesce ad assumere un atteggiamento attivo, con cui discerne il grano dal loglio, proponendo tagli e aggiustamenti chiaramente motivati.

Il lavoro di consulente lo porta dunque, ancora una volta, a vivere dentro di sé la contraddizione. Ne è una prova il Georges Perec di La vita, istruzioni per l’uso, per cui esprime sì un giudizio negativo, ma sottolineando la necessità di sfruttare la favorevole opportunità commerciale. Il libro, che gli pare «vuoto nel senso di un pieno assoluto e irrespirabile», viene rigettato nella forma straniante di una battuta mordace, fra l’astuzia e il candore: «È il sogno supremo di essere più intelligente del compagno di banco».

IN QUESTI «PARERI» si scorge dunque la silhouette del Fortini saggista. Non solo per il rigore delle scelte, ma anche per l’inconfondibile grana stilistica. La scrittura penetrante ed efficace, come fosse già rivolta alla pubblicazione. Una delle metafore più ricorrenti è quella legata alla sfera del «biologico-anatomico» – quasi per una mefistofelica insistenza nel parodiare la supposta «scientificità» di certo specialismo letterario. Alcuni esempi: la scrittura di Gilberto Finzi gli appare condannata in modo irrimediabile ad una «plica psichica della quale è innocente, a una stizzosa petulante piccola collera culturalistica».

E ancora, i versi di Antonio Chiarelotto gli sembrano «da respingere, per anemia organica». Fino a giungere all’acme del riconoscimento di un problema medico: «da una nota manoscritta si capisce, anche senza essere psichiatri, che qui si ha a che fare con una situazione psicotica». La considerazione, lungi dal voler essere estemporanea e gratuita, pretende a un rilievo metodologico fondante. Per poter stabilire infatti la validità dei versi analizzati è necessario produrre «una lettura che, non frettolosa, distingue delirio organizzato da delirio patologico (ciò è possibile; e quest’ultimo, di fatto, non “gira” mai in poesia)». Fortini si dichiara favorevole sì alla «simulazione delle alterazioni psichiche (Éluard-Breton), ma», precisa con lucido sarcasmo, «contrario alla coltivazione manageriale delle alterazioni psichiche».

Un’altra forma «letteraria» che il parere fortiniano può assumere è quella del ritrattino psicologico-esistenziale, lievemente sbozzato in un grumo narrativo che, per quanto appena accennato, non risulta meno caustico; anzi, alla lettera, irridente. A proposito infatti di un autore di versi che aveva già pubblicato dei volumi negli anni Cinquanta, e che altri ne avrebbe in seguito pubblicati, Fortini conclude scrivendo che bisogna rispondergli con prudenza, ma facendogli «intendere che – che cosa? Che è un po’ come certi begli uomini, ex aviatori, ex rappresentanti di imprese petrolifere, un po’ brizzolati, baritonali, esperti della vita notturna di Rio e Singapore… Hi! Hi!».

NELL’ARSENALE RETORICO non manca neanche l’ossimoro divertito da scagliare contro l’avversario di sempre: «composizioni di avanguardia piuttosto stantia».
Le principali «bestie nere» poetiche di Fortini si rapprendono attorno a due estremi complementari: il patetismo neocrepuscolare e l’inganno dell’immediatezza vitalistica.

Un esempio del primo, ma interessante e problematico, sono i versi di Donatella Serafini. Questi si segnalano intanto negativamente per «effusività, abbondanza, aggettivazione pesante (…) il compianto su di sé e sul mondo sembra più sentimentale che autentico». Ma è possibile recuperarne sporadici puntini luminosi: «ma, di tanto in tanto, con qualche illuminazione davvero notevole: «I limoni sono freddi e inorriditi stasera». Il corsivo non lascia molti dubbi. E al lettore avvertito del Fortini poeta non sarà sfuggita la risonanza con quell’«aria inorridita» che, rievocando una variante della Pentecoste manzoniana, era stato tassello espressivo non marginale nel poemetto Il nido di non molti anni prima. Astuti come colombe, e candidi come consulenti editoriali?