Nel 1989, dopo un’interpellanza parlamentare e le pressioni da parte di gruppi conservatori, la Corcoran Gallery of Art di Washinghton fu costretta a cancellare la mostra Robert Mapplethorpe: The Perfect Moment. A dispetto del titolo, mai momento sarebbe potuto sembrare meno perfetto per il fotografo americano, morto di Aids appena due anni prima, a soli quarantatré anni. In realtà, proprio l’attenzione mediatica creata intorno all’opera di Mapplethorpe, bollata dai detrattori come pornografica, contribuì alla sua definitiva consacrazione internazionale, cristallizzando però la sua figura d’artista nel segno di una provocazione fatta di rappresentazione esplicita del corpo maschile e sesso sadomaso.
A distanza di quasi trent’anni, Robert Mapplethorpe: The Perfect Medium, la ricchissima doppia retrospettiva da poco inaugurata al Los Angeles County Museum of Art (LACMA) e al J. Paul Getty Museum, riprende il titolo della celebre mostra censurata proprio con l’obiettivo di modificare l’immagine sclerotizzata di questo artista, mostrandone da un lato la ricchezza tematica, dall’altro analizzando il percorso di sperimentazione che l’ha condotto a fare della fotografia il mezzo privilegiato per esprimere la propria estetica. L’occasione di questa mostra ancipite, curata da Paul Martineau e Britt Salvesen e composta di oltre trecento opere, alcune esposte per la prima volta, è l’importante e recente acquisizione congiunta dell’archivio di Mapplethorpe da parte dei due musei di Los Angeles, un fondo che comprende più di centoventimila negativi, migliaia di Polaroid, oltre a lettere, collages, e materiali documentari.
La prima parte dell’esibizione del LACMA, che si concentra sui metodi di lavoro, le fonti e i processi creativi dell’opera dell’artista, include alcune rare opere precedenti l’uso della fotografia. Tra esse troviamo installazioni di gusto discutibile che contaminano l’irriverenza del ready-made duchampiano con l’iconografia cattolica; monili realizzati con vari materiali quando Mapplethorpe era ancora studente al prestigioso Pratt Institute di New York; diversi collage polimaterici e alcune opere realizzate a partire da capi d’abbigliamento. Proprio questi ultimi lavori sono specialmente interessanti perché racchiudono già alcuni dei temi e delle ossessioni della successiva produzione fotografica. Nel 1970, ad esempio, Mapplethorpe stende su tre telai vuoti delle magliette nere, ognuna che rivela un diverso grado di trasparenza. Il corpo, così centrale nell’opera fotografica successiva, è qui evocato attraverso la sua assenza, sostituito dall’alto valore feticistico dell’indumento. In un collage dello stesso anno, intitolato Leatherman #1, Mapplethorpe sovrappone un tessuto trasparente all’immagine di un giovane modello che indossa sul corpo nudo alcuni indumenti classici dell’estetica sadomaso. È lo stesso procedimento impiegato in quello che passa per essere uno dei sui primissimi autoritratti fotografici, risalente al ’71, in cui la nudità del corpo è schermata ancora una volta da una garza nera. Come scrive Massimo Fusillo nel suo ottimo studio sul concetto di feticcio, ad alimentare questo fenomeno è in particolare la visualità, «il desiderio primario di guardare». Non stupisce allora che il passaggio definitivo alla fotografia negli anni settanta e la conseguente liberazione creativa associata a una pulsione puramente scopica, coincida per Mapplethorpe anche con l’esplorazione del proprio desiderio omosessuale, e delle componenti rituali e feticistiche della cultura leather e sadomaso. Proprio dagli anni settanta, infatti, anche la fotografia arriva a essere riconosciuta come una forma d’arte da gallerie e musei, in un interessante parallelo con l’emergere sulla scena americana delle lotte di rivendicazione omosessuale. La fotografia, dunque, per riprendere il titolo di questa doppia mostra, diventa per Mapplethorpe un perfetto mezzo artistico anche perché permette l’emersione di nuove soggettività e desideri.
La sezione dedicata ai suoi primi lavori fotografici, per la maggior parte Polaroid di artisti e amici, tra cui Marianne Faithfull e, ovviamente, Patti Smith, che ha raccontato la sua intensa relazione con Mapplethorpe nel memoir Just Kids, rivela lo sguardo di un artista ancora lontano dall’estetica glamour facilmente commercializzabile dei ritratti delle star degli anni ottanta, come Andy Warhol e Isabella Rossellini. In questa fase iniziale della propria ricerca fotografica, Mapplethorpe si dimostra però particolarmente attento alla presentazione delle proprie immagini, che incornicia e dispone secondo rigidissimi criteri geometrici successivamente distillati nel tipo di rigorosa composizione e illuminazione glaciale che caratterizza la sua stagione più matura. Anche gli studi di nudo sono ancora parzialmente confinati alla sfera del privato, come rivelano i numerosi autoscatti e alcuni ritratti di Sam Wagstaff, il facoltoso curatore e collezionista con cui Mapplethorpe intreccia una storia sentimentale ma soprattutto un sodalizio artistico determinante per la sua affermazione commerciale. La straordinaria collezione fotografica di Wagstaff, iniziata proprio grazie a questa relazione, è esposta in una mostra parallela presso il Getty Museum, e comprende molti dei fotografi che sembrano aver influenzato anche l’estetica di Mapplethorpe. Lo dimostra, ad esempio, la serie del 1981 intitolata Ajitto, dal nome del modello afro-americano ripreso da quattro diverse angolazioni nella medesima posa rannicchiata del Caino di Wilhelm von Gloeden.
L’originalità dello sguardo di Mapplethorpe è inoltre satura di riferimenti artistici, soprattutto legati all’arte classica, tanto che Jonathan D. Katz ha parlato a proposito di classicismo queer. Se i riferimenti alla scultura ellenica sono tanto espliciti da avvicinarsi al kitsch, queste due mostre rivelano anche momenti di particolare grazia, come l’autoritratto in movimento del 1985 che, rifacendosi alla tecnica di sovresposizione del futurista Anton Giulio Bragaglia, stabilisce un parallelo con il geometrismo assoluto e inquietante del famoso Profilo continuo di Mussolini di Renato Bertelli, di cui Mapplethorne possedeva una copia, fotografata nell’88. O ancora, lo splendido ritratto di un bambino nudo, quasi sospeso sulla testiera di una poltrona (Jesse McBride, 1976), che riprende la posa di Amor Vincit Omnia di Caravaggio.
Sorprendentemente, questo è il medesimo Mapplethorpe che contemporaneamente esplora e vive la sottocultura sadomaso newyorkese, producendo immagini che se potevano apparire dirompenti negli anni settanta, si rivelano oggi allo spettatore tanto famigliari quanto le celebri nature morte floreali realizzate senza soluzione di continuità apparente, ad eccezione dell’improvvisa eruzione del colore in un mondo altrimenti diviso tra bianco e nero. Eppure basta il confronto tra l’algida perfezione di un vaso di tulipani e il rigore formale di un pene che sporge dai pantaloni di un modello vestito di un abito in poliestere (Man in Polyester Suit, 1980) a suggerire che la vera potenza dell’opera fotografica di Mapplethorpe non sta tanto nell’ossessiva ricerca di un equilibrio compositivo, né nella scabrosità dei suoi soggetti, ma nel rapporto dialettico tra perfezione formale, sessualità e desiderio. La sua opera tempera con la forma il potenziale eversivo della sessualità che rappresenta e allo stesso tempo perverte il formalismo classico sessualizzando il linguaggio fotografico, mentre crea una continua oscillazione tra un’estetica apparentemente conservatrice e valori politicamente radicali. Tralasciando il troppo discusso Portfolio X, che contiene il celebre autoritratto in cui Mapplethorpe si rappresenta polemicamente in un atto di autoerotismo, basta soffermarsi su un’immagine straordinaria come Hooded Man (1980) per comprendere che questo artista non sia stato un semplice provocatore. La foto mostra un modello afro-americano con la testa coperta da un cappuccio, apparentemente dello stesso colore della sua pelle. La posizione innaturale delle braccia, piegate perfettamente a mezzo busto, suggerisce un malizioso parallelo tra la testa incappucciata e il suo sesso non circonciso. È un parallelo subito disturbato dall’atroce immaginario di violenza e razzismo associato al cappuccio, e proprio per questo, nell’America di Michael Brown, ci fa ancora pensare.