Racconta Paul Verhoeven che il suo prossimo film lo girerà in Italia, in Toscana, nel Medioevo. Il titolo, provvisorio, sarà Blessed Virgins, l’ispirazione viene da una vicenda accaduta nel Seicento in un monastero di Pescia che il regista ha trovato nel saggio di Judith C. Brown, Immodest Acts – The life of a lesbian nun in Renaissance Italy sulla storia della mistica lesbica Benedetta Carlini.
Per ora  però Verhoeven è qui per promuovere Elle, il suo magnifico film (dopo dieci anni), presentato allo scorso festival di Cannes, premiato ai César – miglior film e attrice a Isabelle Huppert – e escluso dalla cinquina dei film stranieri all’Oscar – dove comunque Huppert correva come migliore attrice. Un risultato strabiliante se si considera il moralismo che serpeggia negli Staes. Elle (in sala il 23 marzo) che ha come riferimento il romanzo di Philippe Djan Oh… (Voland), sceneggiato da David Birke, era infatti inizialmente ambientato in America (dove Verhoeven non girava dai tempi di L’uomo senza ombra) ma – ha detto il regista- nessuna attrice hollywoodiana ha accettato la parte – «Per questo non abbiamo trovato finanziamenti a Los Angeles, del resto negli ultimi vent’anni il cinema americano ha estromesso la sessualità dallo schermo».

 

 

Forse è stata una fortuna, perché Isabelle Huppert – che ha accettato subito invece – è in sintonia totale con l’irriverenza del suo regista, presenza chabroliana in questa contaminazione di farsa, thriller psicologico e exploitation.
Michèle, la «Elle» (lei) del titolo, è un’enigmatica figura di potere alle prese con un figlio succube di una giovane arpia che gli ha dato un bimbo con la pelle dal colore diverso dal loro; con la nuova fidanzata dal marito che è giovane e bella; con una madre che vuole sposare un gigolò… Al lavoro c’è un nerd che la ama, uno che la odia e qualcuno che ha diabolicamente inserito il suo volto in una trucida scena di videogame. «Abbiamo raccontato il personaggio di Michèle così com’era nel romanzo – ha detto Verhoeven – Una donna che ha subito dei traumi ma che non vuole essere considerata una vittima. Lo capiamo anche quando racconta che crede di essere stata violentata, mentre sappiamo benissimo che quella violenza c’è stata».

 

 

Presidente di una società che produce videogames, «Elle» è infatti la figlia di un serial killer, chiuso in prigione da quarant’anni, dopo aver sterminato e dato fuoco una ventina di vicini di casa. Il film si apre su quelle che sembrano le urla di piacere di un uomo e una donna. Ma un lento movimento di macchina, attraverso la casa elegante, ci rivela che si tratta di uno stupro. Quando il suo assalitore mascherato di nero se ne va, Michèle sul pavimento appare più perplessa che terrorizzata. Invece di precipitarsi a chiamare la polizia fa un bagno. E la macchia rossa che affiora nella schiuma candida in cui giace immersa, la spazza via con un gesto brusco.

 

 

 

 

«Il passaggio da vittima a colei che stabilisce questa sorta di rapporto sadomaso con il suo stupratore è stata probabilmente una delle cose che ha più infastidito. Ma era l’aspetto del personaggio – e l’essenza delle sue relazioni col mondo – che mi ha più colpito».