Uno tra i più popolari personaggi della letteratura per l’infanzia dei paesi anglosassoni è un bambino terribile chiamato William, protagonista di trentanove romanzi pubblicati dalla scrittrice inglese Richmal Crompton tra i primi anni Trenta e la fine dei Sessanta. Le sue avventure, trasferite prima alla radio e successivamente al cinema e alla televisione, sono tuttora oggetto di culto, ed è dunque probabile che i lettori inglesi e statunitensi, di fronte all’ultimo romanzo di Elizabeth Strout, Oh William! (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 180, € 18,00) abbiano riferito al monello britannico l’esclamazione mista di sdegno e stupore che ne correda il titolo. Ma l’indicazione porta fuori strada: protagonista della storia, infatti, è l’ex-marito di una donna da cui l’autrice americana pare non riuscire a staccarsi, già presente fin dal titolo Mi chiamo Lucy Barton e ritrovata in Tutto è possibile, dove Strout riusciva nella rischiosa impresa di riprendere caratteri e ambienti del romanzo pubblicato l’anno prima, non per scriverne un sequel, ma per rimetterne in discussione i presupposti. Lo scopo era dare voce, e con ciò dignità e spessore narrativo, a personaggi che nel precedente lavoro restavano sullo sfondo: fornendo un’altra versione dei fatti raccontati dalla Lucy del primo romanzo, quei personaggi offrivano una diversa interpretazione del suo carattere.

Autoritratto cangiante
Tra quelle pagine, Lucy Barton funzionava da collante dei diversi episodi, ma occupava il primo piano in un solo racconto: di storia in storia, infatti, comparse e comprimari salivano al rango di protagonisti, fino a che la rete tessuta dall’intreccio delle loro vicende arrivava a fare a meno di Lucy come elemento unificante. Al termine del romanzo, il profilo della ragazzina indigente, che era sfuggita alla miseria e ai maltrattamenti per diventare scrittrice di successo non combaciava più con l’autoritratto della donna che, in conclusione di Mi chiamo Lucy Barton, esorcizzava il suo passato nella scrittura.

Con Oh William!, Elizabeth Strout restituisce il primo piano all’amata Lucy, che torna a una vicenda appena accennata nel corso del primo romanzo di cui era stata protagonista, vissuta insieme all’ex-marito, il fedifrago William Gerhardt. Ormai ultrasessantenne, da poco vedova del secondo consorte, Lucy accetta di accompagnare William nel profondo Maine, alla ricerca della sorellastra della quale, a settantuno anni, l’uomo ha appena scoperto l’esistenza. La cittadina di Houlton, nel Maine, è qui il doppio speculare di Amgash nell’Illinois, dove Elizabeth Strout aveva fatto nascere Lucy.

Man mano che la storia procede, le origini della raffinata madre di William, Catherine, morta senza rivelare il segreto della sua prima maternità, si scoprono sorprendentemente analoghe a quelle che erano state di Lucy: un orizzonte di miseria e privazioni accomuna l’infanzia e l’adolescenza delle due donne. Ma mentre in Tutto è possibile Strout giungeva alla conclusione che chi proviene dagli strati sociali più umili si porta sempre dietro «come arti fantasma» le sue origini, in Oh William! – pur non ritrattando la propria consapevolezza di classe, enfatizzata dalla sensazione di invisibilità che opprime Lucy anche quando è già all’apice del successo – l’autrice contrappone ai traumi irrisolti della sua protagonista, la sicurezza con cui Catherine sembra essersi liberata del proprio passato. «Com’è che qualcuno è capace di farlo, e altri, come me, emanano ancora il lieve fetore del mondo dal quale provengono? … La mia teoria è che esiste un vuoto culturale incolmabile, solo che non è un puntino, è un’immensa tabula rasa che rende la vita terrificante», conclude Lucy.

Torna alla mente l’episodio in cui, tra le pagine di Il mio nome è Lucy Barton, una insegnante di scrittura creativa dice: «Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola». Ora, descrivendo in Oh William! un Maine così simile al suo Illinois, e inserendovi la storia di Catherine, che tanto ha in comune con la sua, Lucy sembra seguire alla lettera questi insegnamenti. Intreccia le tappe e le scoperte del presente con flash back e illazioni sul passato proprio e altrui, in quel tono colloquiale, sempre a rischio di scivolare nella banalità, che caratterizzava il suo memoir fittizio.

Tuttavia, tra queste pagine cade la finzione di un resoconto autobiografico destinato alla pubblicazione: «Vorrei dire alcune cose sul mio primo marito», dichiara programmaticamente Lucy in apertura del romanzo, e procede di conseguenza, in una chiacchierata apparentemente casuale, punteggiata da richiami diretti a chi legge. Susanna Basso, la traduttrice italiana, usa all’inizio una ecumenica seconda persona plurale («vorrei parlarvi un po’ dei suoi matrimoni») per tradurre lo «you» con cui Lucy apostrofa il suo pubblico. Successivamente, e per tutto il resto della narrazione, opta per un «tu» che, lungi dal creare una particolare forma di intimità, sembra piuttosto rivolto a un qualche interlocutore, di cui chi legge si ritrova imbarazzato a origliare, suo malgrado, la conversazione. Quando Lucy comincia a raccontare dicendo «vorrei che tu provassi a capire una cosa» o ancora, «credo di dover dire una cosa … credo che dovresti saperla», si fatica a identificarsi nell’interlocutore cui la narratrice si indirizza con tanta familiarità. Del resto, il fantomatico «tu» scompare per tutta la parte centrale del romanzo, salvo poi riapparire verso la fine, quando Lucy dichiara, sempre in maniera molto programmatica e nel solito linguaggio amichevole: «Ti voglio raccontare un’ultima cosa … poi basta». La scelta della traduttrice è forse giustificata dalla doppia dedica del romanzo, «a mio marito, Jim Tierney / E a te – se può esserti utile», dove la seconda persona singolare traduce il tentativo di instaurare un rapporto empatico con coloro che sapranno trarre giovamento dalla lettura.

Ragioni inconoscibili
Poiché Strout non impartisce lezioni di vita né giudica i suoi personaggi, le ragioni dei cui comportamenti, spesso contraddittori e negativi, rimangono da ultimo impenetrabili, chi legge può trarre un’unica certezza dal romanzo: «Siamo tutti un mistero, ecco che cosa voglio dire»; così, infatti, conclude Lucy, ammettendo, con tutta sincerità, «Potrebbe essere l’unica cosa al mondo che so per certo».

Alla luce della considerazione finale, per cui rivolgersi a William sottintende per Lucy anche rivolgersi a se stessa e per estensione a ciascuno di noi, a sua volta conosciuto in quanto proiezione di sé, la seconda persona cui Strout dedica il libro e a cui, per bocca di Lucy, si rivolge, viene a somigliare all’«hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère» di Baudelaire: un lettore (o, meglio ancora, una lettrice) in cui Lucy e la sua autrice si riconoscono – e da cui cercano riconoscimento – pur nella consapevolezza che «siamo tutti misteriose costellazioni di miti».