Un glamorama di ritratti, piccoli e pensierosi, è l’ellittico circolo di personaggi storici (Elisabetta d’Austria, Napoleone Bonaparte, Marie Antoinette, Ludwig II di Bavaria, Abraham Lincoln, Angela Merkel, Barack e Michelle Obama, Lady Diana, Jacqueline Kennedy) e star della contemporaneità (David Hockney, Robert Mapplethorpe, Andy Warhol, Marc Jacobs, Sophia Coppola, Eminem, Kanye West e altri ancora) architettato da Elizabeth Peyton (Danbury, 1965), alla National Portrait Gallery di Londra, nella mostra visitabile fino al 5 gennaio 2020.

L’ARTISTA AMERICANA ha rivoluzionato la ritrattistica nella sua retorica, per raccontare un universo di profili che sconfinano tra realtà e mito, tra storia sociale e socialità condivisa dall’immaginario globale, abbattendo i confini tra high e low culture. Pittrice controcorrente fin dalla fine degli anni ottanta, quando la pittura internazionale declinava la sua egemonia incontrastata verso altri medium e lei, totalmente indy, era costretta a esporre all’hotel Chelsea di New York.

La sua è una pittura distrofica, coraggiosamente incandescente, dai colori stridenti e man mano ammorbiditi, dal tocco immediato e dalle identità spiritualmente forti. Elizabeth ha reinventato una dimensione seduttiva del ritratto contemporaneo, mai enfatico e quasi sempre magnetico.
In questo arcipelago di identità e di sentimenti intimi e pubblici, Peyton, adottando una sorta di «regola dell’attrazione» (quasi di Ellisiana memoria) ha incorporato la passione per la pittura classica alla fenomenologia di Mtv fino alla ossessione del Sé di Instagram. Uno sguardo verso il mondo privato e pubblico, consumato dai social ed esplorato dalle riflessioni dei Visual studies. La seducente mostra Elizabeth Peyton: Aire and Angels alla National Portrait Gallery di Londra, curata da Lucy Dahlsen è tutto questo e altro.

OLTRE QUARANTA ritratti di Peyton si diramano nelle sale della National Portrait Gallery sia nella collezione temporanea che in quella permanente. Nelle sale Tudor, l’artista ha costruito una giustapposizione sottile tra passato e presente, dando una sequenzialità empatica e una modernità stilistica alla collezione. Qui si contrappongono il suo Practice (Yuzuru Hanyu) del 2018 dedicato al famoso pattinatore giapponese e l’anonimo ritratto di John Donne (1595), poeta inglese tanto amato dalla Peyton da trarre il titolo della mostra da una sua poesia. Poi contrappone grunge e monarchia in un gioco bizzarro tra l’acidissimo Alizarin Kurt (1995), un Cobain dalle ciocche arancio infuocato che ne nascondono il viso e la Queen Elizabeth I (1575) ritratta da un anonimo. E’ una corrispondenza amorosa quella tra il suo cinematografico Twilight (2009) e una scultura bronzea di Harriet Goodhue Hosmer (1853). E si prosegue con un vivido Isa Genzken (2010) e l’autoritratto di Anthony van Dyck del 1640. L’oscillante narrazione continua tra ritratti di status come William Cecil, il primo barone Burghley e Sir Henry Lee e un livido quanto intenso Liam Gallagher (frontman degli Oasis) nel famoso Blue Liam (1996), penetrante e languido quanto Jarvis Cocker in Jarvis (1996)) e Keith Richards in Keith (From Gimme Shelter) del 2004.

NON MANCA il suo celebre carboncino Napoleon (1991) col quale ha iniziato a inanellare i molti rimandi agli autori prediletti come Leonardo da Vinci, Michelangelo, Edward Burne-Jones e Eugène Delacroix (quest’ultimo perfino evocato da Elizabeth con un tatuaggio sul braccio). Ed è ovvio che essi si innestano in quel vortice di sguardi profondi e di corpi reclinati che rievocano le passioni, la musica, la moda, la letteratura, il sapere, lo status sociale, il potere, il sogno, il narcisismo, l’affettività, il simulacro, la malinconia, l’amicizia, l’amore e la dipendenza dell’epoca global.

Per essi, Elizabeth immola amici e idoli globali: Frida Kahlo in Frida (2005), il rapper Tyler the Creator (2019), David Bowie in David (2017), il rocker Elias Bender Rønnenfelt (2016), il pianista David Fray, Cy Twombly, la fashion designer Phoebe Philo (2015), Iris and Klara Commerce St (2012) e il bellissimo Nick (La Luncheonette) del 2002, increspato nell’olio di un blu cupo e di un viola malinconico. Si alternano ai suoi autoritratti Portrait at the Opera (Elizabeth) del 2016 e Live to Ride (EP) del 2003. Non ultimo è il fluente e emozionato omaggio a Luca Guadagnino in Elio, Oliver (Call Me By Your Name) del 2018 in un focus che si restringe sui bei volti di Timothée Chalamet e di Armie Hammer.