Una donna nella sua casa davanti alla valigia aperta, i movimenti sono lenti, distratti, quasi svogliati. La vediamo poco dopo all’aeroporto dove quasi con gioia afferma al banco che ormai è tardi, e il suo volo per Osaka deve essere partito senza di lei. Invece no, un ritardo l’ha fatta essere in tempo. Il caso o il destino di un viaggio che doveva accadere. Inizia così Sidonie au Japon di Elise Girard, che dopo l’anteprima alle Giornate degli Autori di Venezia sarà in sala giovedì prossimo, 11 gennaio, col titolo Viaggio in Giappone. Sidonie, che ha la grazia speciale di Isabelle Huppert, è una scrittrice invitata dal suo editore giapponese che si chiama Kenzo Mizoguchi (è l’attore Tsuyolshilhara) come il grande regista – «Era un mio gioco» dice Girard. Dal primo incontro sappiamo che tra i due accadrà qualcosa come nelle commedie classiche, lei piccolina, lui altissimo, lei chiusa in una serie di traumatici dolori che esorcizza con la scrittura – la quale però a un certo punto non le è bastata più – lui silenzioso e di poca confidenza perché «in Giappone teniamo i sentimenti per noi». Il viaggio diventerà pian piano uno spaesamento e una scoperta di sé.
Autrice francese con un immaginario raffinato,  e pieno di passioni cinematografiche intrecciate all’esperienza del vissuto, Elise Girard, al suo terzo film, compone una storia di lutti e di rinascite, di vite sospese sui bordi di fragili equilibri, di nuovi amori e di libertà che sa modula con umorismo, delicatezza, desiderio. Ne parliamo su zoom, da Parigi.

Le tue storie hanno sempre al centro personaggi femminili colti in un momento di passaggio dell’esistenza.

Se faccio un film è anche per capire qualcosa di me, siccome sono una donna mi sento a mio agio con le figure femminili, però una parte di me entra in tutti i personaggi. Nel caso di Viaggio in Giappone c’è qualcosa che mi appartiene in Kenzo, l’editore giapponese di Sidonie. La scelta di partire da un passaggio nella vita rimanda alla stessa esigenza di mettere a fuoco le mie esperienze; la realtà va molto in fretta e scrivere e trasportare il proprio vissuto al cinema permette di affrontarlo, di capirlo, di illuminare dei percorsi che sono un modo di essere. La mia scrittura comincia sempre da un’emozione che è uno stato d’animo nebuloso, neppure io capisco bene da dove arriva; scrivere gli dà la compiutezza necessaria per filmarlo. Viaggio in Giappone è nato dalla scoperta di quel Paese, era la prima volta che andavo in Asia e in un posto del quale non capivo la lingua – mi avevano invitata a presentare Belleville Tokyo, il mio primo film. Mi accompagnavano sempre due persone con cui però non riuscivo a parlare, non avevamo una lingua comune. Non mi occupavo di nulla, un po’ come Sidonie nel film ero sospesa in una sorta di distanza dalle cose. Quel silenzio dolce mi ha permesso di guardare alla mia vita in Francia con una diversa profondità, ho capito che stavo bene e anche se avevo attraversato esperienze difficili, cresciuto un figlio da sola, portato avanti molte lotte ce l’avevo fatta. Ho avuto voglia di tradurre questa nuova consapevolezza di serenità in una scrittura, provando a mostrare come la lontananza aiuta a comprendersi meglio. Ho iniziato a chiedermi che film poteva esprimere questo e mi è venuta in mente l’immagine di una donna colta tra il lutto e la rinascita, quel ritorno alla vita che per lei coincide col Giappone.

Però hai detto anche che non è un film autobiografico.

Non lo è, non in senso stretto almeno, ma il mio vissuto ne fa parte a cominciare dalle emozioni che ho provato scoprendo il Giappone. Grazie a una residenza artistica sono rimasta a Kyoto un anno e mezzo, questo mi ha permesso di iniziare i sopralluoghi mentre scrivevo, e di approfondire quella realtà. Ho letto molto, ho intervistato amici giapponesi intanto andavo avanti insieme alle sceneggiatrici, Maud Ameline e Sophie Fillières. Dovevamo costruire una narrazione su un viaggio di sei giorni in Giappone: cosa poteva accadere? In che modo sarebbero cambiate le relazioni? In una prima fase ho lavorato con Maud che è molto strutturata, forte, una vera tecnica della sceneggiatura. In seguito con Sophie, che è morta la scorsa estate ed è stato un grande dolore, eravamo molto amiche, abitando vicino ci vedevamo spesso. Per me il rapporto è fondamentale, riesco a scrivere solo con chi conosco bene. Sophie l’avevo incontrata ai tempi del mio film precedente, Droles d’Oiseaux (2017), era stata lei a venirmi a cercare quando lo aveva visto. Non avevamo mai lavorato insieme, è stata bravissima a far emergere l’umorismo, che era già nella prima scrittura ma che con lei ha preso una forma più netta in cui si uniscdono malinconia e burlesque. Era una persona molto dotata, con un grande intuito per la commedia.

Rispetto ai tuoi due film precedenti qui hai una maggiore consapevolezza di regia, e non mi sembra solo questione di esperienza.

Avevo più mezzi, e con un budget più alto ho potuto fare finalmente quello che volevo. Ma certo sentivo una maggiore libertà, un po’ perché come dici è il mio terzo film, ma soprattutto ho avuto la fortuna di avere un’attrice come Isabelle Huppert. Sarei banale a dire che è geniale, io la adoro; ha saputo cogliere l’ humor del film riuscendo a far coabitare in lei i diversi piani narrativi e emozionali che lo attraversano. Per me i dettagli sono fondamentali, uniti compongono l’insieme. Isabelle lo ha capito subito, e aveva intuizioni, gesti che inventavano traducendo la scrittura alla perfezione. Un esempio: all’inizio quando lei e Kenzo si incontrano all’aeroporto lui le appare molto alto, lei che è piccola fa fatica a tenere il suo passo. Quando lui si avvia con la sua borsa lei accelera la camminata producendo un effetto buffo, divertente, senza che io le avessi suggerito nulla.

Il «momento di passaggio» in questo film è quello di un lutto e della sua elaborazione. La protagonista ha perso il marito come aveva perso da ragazzina la famiglia, è qualcosa che l’ha paralizzata ma in Giappone la morte sembra entrare nella vita, convivere con essa.

Mentre ero a Kyoto mi è capitato di parlare di questo con un monaco buddista, lui diceva che la morte ha in Giappone una relazione diversa col quotidiano rispetto all’occidente. C’era un’amica che quando andavo da lei a cena apparecchiava per il marito defunto- da noi sarebbe una follia – e anche nel cinema giapponese ci sono spesso dei fantasmi. Io però volevo portare lì un fantasma occidentale, il marito che appare a Sidonie rimanda a film come Il marito della signora Miur di Mankiewicz più che a quelli giapponesi. C’è un altro aspetto che mi aveva colpita, il lutto di Sidonie è individuale, quello di Kenzo, che ha perduto molti famigliari, è invece collettivo, evoca la bomba di Hiroshima, il terremoto di Kobe: i giapponesi sono legati fra di loro da questa storia comune. Prima ancora però volevo parlare di questo tema, viviamo tutti dei lutti, sappiamo cosa sono ma evitiamo di parlarne. E invece è un bene condividere, dare voce a questo che continua a essere un soggetto segreto.

I paesaggi sono quelli di una memoria cinematografica ma anche di visioni frammentarie, colte dai finestrini dei treni o delle automobili. Mentre lo spazio dei personaggi è netto, fatto di distanze e geometrie che mutano.

Mi è piaciuto subito il modo in cui i giapponesi vivono la natura, la contemplano, ci sono giardini bellissimi e pieni di pace con una calma che credo influenzi inevitabilmente la spiritualità. Come dice Sidonie tutto è uguale a come è da noi e niente lo è. Forse perché c’è una temporalità molto diversa, con un rapporto tra lentezza e velocità che può farti sembrare sei giorni tre settimane. Naturalmente è una percezione molto personale ma che volevo entrasse nel film. Ho cercato di unire il paesaggio della tradizione, quello di Kyoto coi suoi templi, alla modernità delle architetture contemporanee in un modo che riflette il movimento intimo di Sidonie, il suo lasciare il passato per tornare nel presente. Mi piace moltissimo il cinema di Naruse per come costruisce un rapporto fra le persone e i luoghi. Il paesaggio riflette le emozioni e gli stati di animo dei personaggi di Sidonie e di Kenzo, così come i loro corpi disegnano nello spazio il cambiamento dei loro sentimenti. In particolare nei l taxi accade qualcosa, mentre sono seduti l’una accanto all’altro in quel piccolo abitacolo iniziano a avere una confidenza, come può capitare quando si incontra una persona sconosciuta. Il taxi per me ha una dimensione molto cinematografica, mi piace questo loro scoprirsi in quei tragitti.

Quanto è difficile oggi realizzare un film come «Viaggio in Giappone»?

È stato molto difficile nonostante Isabelle Huppert non abbiamo avuto né i canali televisivi né gli aiuti selettivi. L’ho potuto fare grazie alla coproduzione col Giappone, la Svizzera e la Germania altrimenti non ci sarei mai riuscita.