Intervistare Elisabetta Papini, candidata per Sinistra Italiana al proporzionale nel collegio Lazio 1, non è facile. La sua campagna elettorale si svolge tra un turno di lavoro e l’altro, e anche i giornalisti devono stare nei tempi. Papini è coordinatrice infermieristica – così oggi si chiama la «caposala» – in una struttura privata del Lazio e in vista del 25 settembre non si è messa in aspettativa. «Non potrei permettermelo. Preferisco la militanza che raccontava Gramsci: dopo le otto ore di lavoro, altre otto dedicate al partito o al sindacato». Papini le sue ore le ha sempre spese per la politica e il sindacato: è stata delegata sindacale per la Cgil e consigliera municipale con Sel. Oggi è coordinatrice nazionale del Forum per il Diritto alla Salute, e soprattutto femminista: «mi candido anche per rappresentare le donne in sanità, che rappresentano il 67% degli operatori».

L’Italia possiede un servizio sanitario universale. La sanità privata lo sta snaturando?
Oggi si tende a parlare più di «sistema sanitario» che non di «servizio». Sistema fa riferimento a un misto di pubblico e privato, anche quello sociale, previsto dalla riforma di Rosy Bindi del 1999. È quella che ha introdotto anche il sistema odioso dell’intramoenia con cui i cittadini si scontrano quotidianamente. La legge istitutiva del 1978 però parla tuttora di «servizio sanitario nazionale». Il problema è che conteneva due articoli che aprivano alla convenzione con i privati, due bombe a orologeria che oggi sono esplose. Noi pensiamo che il pubblico non debba farsi carico anche della quota di profitti dei privati, come avviene oggi. Alla sanità privata sono affidate funzioni essenziali: i servizi infermieristici, la fisioterapia, persino la medicina con le cooperative di medici precari. I costi del personale oggi vanno sotto la voce delle acquisizioni di beni e servizi. La precarizzazione che colpisce soprattutto le donne, che Save the Children ha giustamente definito «equilibriste».

Come si ferma lo strapotere dei privati in sanità?
Internalizzando i servizi. In più, le Asl devono controllare maggiormente i requisiti sanitari minimi richiesti alle strutture convenzionate. L’ordine degli infermieri prevede un operatore ogni sei pazienti? In molte strutture siamo a un infermiere ogni 20 pazienti. Nelle Rsa si arriva a uno su 40. Invece di parlare di «requisiti minimi», bisognerebbe pensare ai «requisiti adeguati». Secondo gli Ordini, non i sindacati, in Italia mancano 63 mila infermieri e 40 mila medici.

Con il Pnrr il governo ha avviato una riforma della sanità territoriale, che fa leva sulle Case di comunità. Con la caduta del governo il cantiere è rimasto incompiuto. Come completarlo?
La sanità è al sesto posto tra le priorità del Pnrr, l’ultimo. Per far funzionare le Case di comunità serve un forte decentramento amministrativo che restituisca importanza ai comuni, i primi enti di prossimità a cui spetta l’erogazione dei servizi sociali. Invece si è puntato alle mega Asl, guidate da un direttore generale monocratico. Senza rispetto per il principio di democrazia che dovrebbe ispirare il servizio sanitario. Mancano poi le riforme che riguardano il personale. Per il funzionamento delle Case di comunità è fondamentale che i medici di base e i pediatri passino sotto il servizio pubblico, una proposta condivisa anche dalla Fp Cgil. L’approccio olistico, le équipe multidisciplinari, la valorizzazione del personale infermieristico sono belle parole. Oggi il paziente è un soggetto della cura, con i suoi diritti e le sue domande. Ma questa trasformazione richiede assunzioni, con graduatorie regionali e nazionali. Invece nel Pnrr non c’è nulla su chi gestirà queste Case di comunità: il terzo settore, le cooperative, o le multinazionali dei servizi che non valorizzano i professionisti?

La professione sanitaria è per due terzi svolta da donne i cui servizi, dai consultori alla legge 194, sono sotto attacco. Occuparsi di sanità significa anche occuparsi di genere?
È fondamentale investire sulla medicina di genere: le patologie di una donna sono spesso diverse da quelle di un uomo, ma a lungo sono state trattate nello stesso modo. Molte sono emerse solo grazie a movimenti come Non una di meno. Anche le persone Lgbtqi+, ad esempio, devono essere incluse negli studi e avere maggiore accesso ai consultori. Per legge, dovrebbe esserci un consultorio ogni 20.000 abitanti, ma ce ne sono molti di meno (uno ogni 35.000 abitanti, ndr). Dovrebbero essere aperti a tutte le età, e tornare nelle scuole con cui il dialogo deve essere continuo. E competenze di mediazione culturale, per intercettare anche la popolazione migrante.

Come si finanzia la sanità senza ricorrere al privato?
Un esempio? Riducendo le spese militari. Oggi spendiamo per la difesa 104 milioni di euro al giorno. Andrebbero riconvertiti e destinati alla sanità. Gli investimenti per la ricerca della pace invece sono stati molto inferiori. Vedere Enrico Letta e Nicola Zingaretti con l’elmetto non mi è piaciuto.