Elisabetta Benassi vuole farci paura – e ci riesce benissimo. Non tragga in inganno il witz dell’opera che dà il titolo alla sua prima grande antologica in un museo pubblico (un percorso di vent’anni al MACRO di Roma, sino al 25 agosto), Autoritratto al lavoro (un paio di motozappe scrostate di rosso, trovate in una campagna del ferrarese con stampigliato il brand dell’azienda produttrice, OFFICINE MECCANICHE BENASSI; il suo motto suona «Con noi per coltivare il futuro»). Entrando nel pianterreno del museo, infatti, ci si accorge subito di due cose. Gli occhi non galleggiano più in libertà in quel grande vacuum a forma di L (nel quale hanno fatto naufragio, in passato, grossi nomi non solo nazionali), intralciati come sono da una serie di alti tramezzi di «gesso alfa» (il più duro, mi spiega la sorella dell’artista Ilaria, cioè l’architetto che li ha realizzati), che costringono il visitatore a uno zigzag anarchico come il dis-ordine analogico dell’allestimento, incurante di raggruppamenti tematici o cronologici.

La seconda cosa che fa immediata effrazione nel cervello vibra a lungo, poi, nello stomaco: è l’ambiente sonoro che pervade la mostra, frutto della sovrapposizione di due fonti principali e diverse altre minori. Sulla parete di fondo scorrono ipnotiche le immagini di un’opera del 2006, Yield to Total Elation: un’automobile di grossa cilindrata gira interminabilmente attorno a una scavatrice che, altrettanto instancabile, sbriciola le pietre di una cava e le fa scorrere su uno scivolo (come in Asphalt Rundown di Robert Smithson, 1969, e magari pure come nel finale del Pasolini dell’anno prima, Che cosa sono le nuvole; Pasolini è stato e resta l’avatar prediletto da Benassi: al MACRO sono esposti due noti video del 2000, Timecode e You’ll never walk alone). A questo suono materico, già disturbante, si sovrappone la musica non rassicurante di Luigi Nono (è Ein Gespenst geht um in der Welt, del ’71, un titolo tratto dal Manifesto del partito comunista in omaggio alla rivoluzionaria afro-americana Angela Davis).

Questo è lo spettro sonoro che si aggira nel museo, mélange ricco e strano che produce uno stato di allerta simile a quello dei suoni fuori-campo della Zona d’attenzione di Jonathan Glazer (l’osservazione è di un grande scienziato in compagnia del quale visito la mostra; «un infedele alla processione», si professa sardonico; alla fine però lo vedo conquistato a sua volta, malgrado tutto, dal canto che dalla materia fa sprigionare Elisabetta).

Benassi, foto Priscilla Benedetti

La sensazione, tanto imprecisa quanto perentoria, è che venga annunciata una catastrofe inevitabile. Il paradosso proprium di Benassi, però, è che questo disastro imminente viene proiettato nel passato. Si può dire che tutti i suoi lavori nascano da un oggetto storico trouvé, e dalla sua elaborazione nel presente: è il caso dei «retro» delle foto d’agenzia di All I Remember (l’opera che le ha dato la fama nel 2011), nei «mattoni» dei sedimenti delle alluvioni nel Polesine (The Dry Salvages, alla Biennale di Venezia del 2013) e nei mirabili The Bulletproof Angela Davis del 2011 (all’interno della cabina antiproiettile che proteggeva la militante durante un suo discorso c’è il vecchio registratore a bobine che riproduce il brano di Nono) e Gorilla Gorilla Gorilla del 2015 (tre chiostre concentriche di sbarre d’acciaio ricordano la reclusione di Bushman, lo scimmione attrazione dello zoo di Chicago negli anni trenta), che si specchiano l’uno nell’altro e in un lavoro più recente, The Sovereign Individual (grandi cocoons in gesso che alludono all’individualismo radicale professato dal neo-liberismo di oggi). Ma è anche il caso dei tappeti che ingigantiscono telegrammi di certi momenti-chiave del secolo, come quello inviato nel 1984 da Joseph Beuys a Robert Rauschenberg: «Caro Bob, la storia non ci concederà alcun perdono anche se avessimo abbastanza coraggio da affrontare tutti i terrori del pianeta». All the terrors of the planet è datato 2021: un tempo dominato dalla paura che, da allora, non s’è più interrotto.

La paura che ci incute questa mostra deriva proprio dal suo essere una retrospettiva. Sono vent’anni che seguo affascinato il lavoro di Elisabetta Benassi, ma è la prima volta che mi trasmette questo inequivocabile senso di allarme. Ciascuno per sé può evocare sentimenti diversi, ma l’accostamento dei lavori conferisce a tutti, oggi, questa stimmung inconfondibile. La malinconia dei «Motomen» rottamati nello sfasciacarrozze di Tutti morimmo a stento (2004), al pari dell’ironia di Autoritratto al lavoro (2016), alludono alla metamorfosi dell’artista in macchina, condannata a una cattiva infinità come l’auto di Yield to Total Elation o il circolo di La vie à crédit (dello stesso 2006) disegnato all’infinito da una punta d’acciaio meccanica su un tavolo di legno: ma ora prevale la percezione dell’entropia destinata a distruggerci. I rifugi dell’individuo-monade di The Sovereign Individual sono altrettante trappole, come quelle di cui sono prigionieri tanto la fiera rivoluzionaria che la scimmia antropoide.

Questa circolarità e questo rovesciamento ricordano uno scritto del 1974 di Donald Winnicott, Paura del crollo. Spiegava lo psicoanalista inglese che le «organizzazioni di difesa» psicotiche prefigurano catastrofi che però ri-mettono in scena eventi che il paziente si porta dietro da sempre. A terrorizzarci, paradossalmente, è l’incombere di una minaccia che si è già realizzata. Una possibile terapia, secondo Winnicott, consiste nel cercare in quel passato oscuro un frammento «ancora non sperimentato» che possa prospettarsi in forma non persecutoria bensì salvifica. Non si può forse chiedere all’artista l’equivalente di questo miracolo laico, ma l’ultimo «tappeto» da lei prodotto riproduce il più antico di questi messaggi dal passato. Lo scrisse nel 1919 Dziga Vertov, il grande cineasta sovietico, ai compagni Spartachisti di Berlino: «Abbiamo bisogno di persone consapevoli, non di una massa inconsapevole, pronta a cedere a qualsiasi suggestione! Viva la coscienza dei puri che possono vedere e sentire!».