Quattro sassolini sulla lastra tombale di Gina Thusek (Rýmarov, Moravia, attualmente Repubblica Ceca 1900-Merano 1983), nel cimitero comunale di Merano, alludono ad una storia nella storia. Sulla colonnina, la figura femminile accovacciata che lei aveva scolpito nel marmo bianco di Lasa – collocandola lì nel 1973 alla morte del marito, l’ingegnere Oskar Thusek – avrebbe vegliato, esattamente dieci anni dopo, sulle sue spoglie. Sulla tomba compare il nome completo Regina Thusek «geb» (nata) Klaber e la qualifica «bildhaurin» (scultrice). Il ’73 è anche l’anno del primo incontro tra l’anziana signora, sempre curata e generosa nel desiderio di condivisione, con una giovanissima Elisabeth Hölzl (Merano 1962, vive e lavora a Merano) che per qualche tempo seguì settimanalmente le sue lezioni di disegno, tra una tazza di tè e l’altra, certe volte ritraendo sua madre che posava nuda. Momenti non convenzionali, quelli trascorsi dalla ragazzina nella casa-studio di Gina, che furono per lei di grande ispirazione, indirizzandola verso gli studi artistici che avrebbe seguito all’Accademia di Belle Arti di Bologna con una formazione in Scultura.

La mostra Eliografie, incomplete Elisabeth Hölzl | Gina Klaber Thusek, curata da Ursula Schnitzer al Kunst Meran /Merano Arte (fino al 5 giugno) è il racconto a due voci di questo nuovo incontro, ulteriormente rafforzato dalla pubblicazione di Diary, un libro d’artista in cui le pagine bianche, destinate a possibili appunti del lettore, si alternano a quelle delle opere di entrambe, insieme a passaggi del loro mondo privato. «Cosa voglio ora? In questi prossimi, ultimi anni di vita dare compimento a ciò che ho iniziato in modo frammentario, disegnando, modellando, incollando, cercando, scrivendo», scriveva Gina Klaber a Merano il 24 dicembre 1973. Ebrea da parte di padre, l’artista che a Vienna aveva frequentato il Wiener Graphische Lehranstalt e nel ’21, sposatasi, si era trasferita con il marito a Teplitz-Schönau e poi a Londra, dove lavorò come stilista di maglieria (firmava le sue creazioni con l’etichetta «Gina») e, quando Oskar ebbe un incarico in Italia, lo seguì nel Belpaese ma in quanto straniera con discendenza ebraica dal ’39 al ’46 venne confinata a Merano. Con il marito condivise lo status di apolide fino al 1955, quando entrambi ebbero la cittadinanza italiana.

La città sul Passirio rimarrà, comunque, per il resto della sua vita il luogo in cui tornare ma anche quello da cui allontanarsi temporaneamente per aprirsi a nuovi orizzonti, viaggiando tantissimo in Italia e all’estero. Tanto più che a Merano, dopo aver studiato scultura all’Accademia di Firenze e poi a Brera, sebbene avesse conseguito importanti riconoscimenti tra cui il X Premio Suzzara con la scultura in bronzo Maternità del 1957 (il premio consisteva in una macchina da cucire e una medaglia d’argento), rimaneva comunque un’artista fuori dalle righe. «Gioco, tanto la mia opera non viene capita», diceva Gina alla sua allieva. Questa libertà che era alla base di un pensiero autentico, oltre che di un modo di vivere e di un’espressione artistica, trova conferma nel materiale documentario: lettere, diari e migliaia di fotografie, in parte scattate dalla stessa Thusek con le sue macchine fotografiche (aveva anche una Leica) che la vedono danzare, correre e camminare nuda nel paesaggio o vicino agli alberi secolari. Amava, tra l’altro, come pratica salutare prendere il sole e fare il bagno nuda e con un gruppo di amici antesignani naturisti si recava spesso nell’area di Passer Fritz.

A distanza di quasi cinquant’anni Gina Klaber Thusek e Elisabeth Hölzl, con la complicità di Ursula Schnitzer, attenta e appassionata conoscitrice della scena artistica meranese, incrociano nuovamente i loro sguardi attraverso il lascito Thusek conservato presso l’archivio del Palais Mamming Museum, il Museo Civico di Merano. Un punto di partenza per la riscoperta del lavoro di Gina Thusek, ma allo stesso tempo un’occasione per l’artista più giovane per ripercorrere le tappe più significative del suo stesso iter, tra coincidenze e affinità elettive. Apre la mostra proprio una serie di quattro disegni di nudi, datati 1986, realizzati da Elisabeth Hölzl a penna di canna sul retro della carta intestata di Gina che, all’indomani della sua morte, le fu donata dal fratello Fredy Klaber. Anche il titolo della mostra – Eliografie, incomplete – è preso in prestito da una cartella del lascito. A rendere più stimolante il percorso è l’assenza di una linearità narrativa e cronologica, piuttosto c’è la declinazione dei temi comuni del desiderio, dell’amore e della nostalgia interpretati con stili e materiali diversi, inclusa la cera delle candele, il ferro, il vetro e, sparsi qua e là, degli «indizi» che suggeriscono letture incrociate. Come quando nella sala delle missive e dei diari che Gina tenne per tutta la sua vita (scriveva prevalentemente in tedesco, ma anche in inglese, francese e italiano: pagine fitte di scrittura movimentate da ritagli di giornale, biglietti del teatro, fotografie stesse), allineate sulla lunga mensola ci sono fotografie di Gina Thusek che la ritraggono in momenti, luoghi e situazioni diverse in mezzo alle quali compare anche un ritratto anni ’80 di Hölzl e una foto in bianco e nero di lei piccolissima con la mamma e il papà.

Il linguaggio fotografico è un elemento di reciproco interesse: nel lavoro di Hölzl è spesso connesso con il tema della memoria, soprattutto nei progetti a lungo termine tra cui la serie degli anni 2006-2007 sullo smantellamento dell’Hotel Bristol a Merano e Luoghi d’arte (in corso dal 2014), in cui l’artista entra negli studi, nei laboratori e nelle abitazioni di artisti del posto, tra cui Oswald Kofler (1923-2012), Antonio Manfredi (1912-2001) e Rina Riva (1922-2010), restituendone attraverso i suoi scatti a colori i segni di una percettibile traccia malgrado la loro assenza. Anche in Augenblick (attimo), iniziato durante la pandemia, nell’estate 2020, dedicato al tema della caducità, viene espressa una forte reazione vitale attraverso un set in cui uomini e donne nudi, in piedi dietro un sottile telo di garza di cotone che tengono in mano su cui è riportata la frase «Attimo, fermati, sei così bello» tratta dal Faust di Johann Wolfgang Goethe. «Dietro la quinta del telo, una specie di seconda pelle,» – si legge in Diary – «si crea uno spazio magico in cui ogni persona si mostra in un suo modo inconfondibile».