Con un titolo che è volutamente sgrammaticato ma anche un’interessante asserzione, Eliana Albertini (1992) che si era già fatta notare in Becco Giallo con Malibù, torna in libreria con il suo secondo graphic novel, stavolta pubblicato da Rizzoli Lizard. Anche le cose hanno bisogno è uscito in primavera e l’autrice è stata recentemente ospite della rassegna pisana Fumetti e Popcorn, dove l’abbiamo intervistata.

Nell’apertura del tuo libro la protagonista Agnese parla in prima persona, dicendo che talvolta vorrebbe sentirsi come gli oggetti insignificanti che trova per terra. Perché hai scelto di far parlare un personaggio che si confessa in prima persona sin dall’inizio?
Questa storia è iniziata proprio dalla costruzione del personaggio di Agnese. Avevo appena finito Malibù, dove il personaggio è il paesaggio, e non esiste un vero protagonista, essendo una storia corale. Non è stato facile «incontrare» Agnese, ma a un certo punto ho scritto una pagina di quaderno, dove raccontavo di questa ragazza, operatrice ecologica, che se ne va in giro. Durante il primo lockdown, come tutti, sono stata molto da sola e forse anche per questo mi sono sentita di raccontare di una persona. Per questo a livello di scrittura, è nato il diario di Agnese: in effetti la prima cosa che compare nel libro è la scrittura e questo dice molto sia sul processo di creazione, che sulla storia e il personaggio stesso.

La scrittura diaristica è un soliloquio dal quale trapela una difficoltà di comunicazione all’esterno. Infatti Agnese, con la sua ossessione di portare a casa le cose che trova per terra, non è accettata in primis dai condomini del palazzo in cui vive che si lamentano della puzza che esce dal suo appartamento. Agnese, è bizzarra e socialmente inserita come operatrice ecologica: era tua intenzione affrontare anche il tema della neurodiversità, della sua emarginazione?
Ho riflettuto a lungo sul fatto di aver collocato Agnese in una posizione specifica: ha evidentemente uno svantaggio psichico ed è stata assunta come categoria protetta. Pur non avendo esperienza diretta con questo tipo di disabilità, ho sempre osservato come la società sia giudicante. Anche se da una parte è «normale», ho voluto ribaltare i punti di vista e raccontare Agnese come se lei fosse la normalità, utilizzando la sua autoanalisi scritta nel diario; ho cercato quale fosse il suo rapporto con gli altri ed è emerso il profilo di una persona che di base è a proprio agio con sé stessa e con quella che è la sua occupazione: non comunica con gli altri ma trasmette una sensazione di serenità.

Infatti non si parla al presente della sua sofferenza rispetto allo stigma, rappresentato in un’unica sequenza, un flashback dove lei viene bullizzata da amiche in spiaggia.
Una cosa che succede anche a bambine del tutto «abili». Ho introdotto questa scena del passato nel momento in cui Agnese raccoglie un orsetto rotto per terra, decide di curarlo e per farlo si taglia; quel dolore fisico la riporta al ricordo di un dolore passato e di altro tipo, dal quale appunto si è curata, come può curare l’orsetto. Per questo per lei è così importante aggiustare il pupazzo; è un modo per prendersi cura anche di sé stessa.

Ci sono personaggi con i quali Agnese si rapporta: la madre, insoddisfatta del lavoro della figlia e un signore anziano che con la scusa di mostrarle la sua collezione di oggetti vecchi, le fa delle avances. Siamo aggressivi, se non solo indifferenti, verso il diverso?
Lavoro sempre sul contesto sociale della provincia, perché è quello che conosco meglio e del quale posso descrivere al meglio le dinamiche. Quando ho immaginato Agnese camminare per strade a me molto note ho creduto che ci potesse essere un anziano che tentasse di approfittarsi di una ragazzina un po’ spersa. Non è direttamente una critica: più che evidenziare la debolezza del soggetto, l’obiettivo era quello di tracciare ritratto della realtà, cercando di evitare il giudizio.

Parlando della provincia, dell’atmosfera e della temperatura dei luoghi e delle dinamiche, riesci a coglierne la poesia. Le cose hanno bisogno di essere raccontate?
Mi interessava che Agnese risultasse l’unica ad essere attratta dalle cose insignificanti e che per questo venisse criticata e giudicata, ma che si capisse che in fondo tutti parlano e tengono in casa cose piccole: il signore della collezione, l’anziana che deve svuotare il garage, la mamma che vorrebbe per lei un futuro diverso ma che ha la casa piena di soprammobili e che si intristisce quando il nanetto da giardino cade e si frantuma. Tutti siamo legati alle cose e ai ricordi, tutti abbiamo un rapporto con gli oggetti che possediamo, alcuni lo mettono in discussione, non riescono a pensarci serenamente.

La storia è disegnata in molti modi diversi, dalla linea, alla composizione della pagina: ci sono sequenze a fumetti, pagine con oggetti realistici disegnati nei minimi dettagli, splash page con paesaggi incolti di periferia: è quasi come se il processo di reificazione permeasse anche le scelte grafiche.

La storia si è sviluppata molto liberamente e la tecnica l’ha seguita. Questo mi ha aiutato nella realizzazione del libro, a livello manuale volevo evitare quell’automatismo del gesto reiterato, la meccanica di disegnare le tavole nello stesso modo. In base al lavoro che devo fare mi piace capire cosa sia meglio a livello grafico. Visto che Agnese è un personaggio stratificato e con molte sfaccettature, ho pensato che potevo usare tecniche diverse, parti a fumetto in bianco e nero, gli oggetti sono colorati tutti a tempera, ci sono dei cartelli, il ritratto dell’orsetto, etc.

Nel mondo della didattica esistono i «realia», oggetti della vita reale che messi in mezzo a una spiegazione o comunque alla trasmissione di contenuti riescono a coinvolgere e catturare meglio l’attenzione degli studenti. Il diario di Agnese scritto sulla pagina «vera» funziona con i lettori allo stesso modo, è più eloquente che se i supi pensieri fossero stati chiusi nei balloons…
Mi è sembrato molto più ovvio e naturale mettere la pagina del diario così com’era, scansionando una paginetta scritta da me, sgrammaticata, con una calligrafia elementare. Credo di aver impiegato più tempo a fare queste pagine che non a disegnare l’aspetto esteriore e la faccia di Agnese.

Parliamo della spazzatura, dei residui, di ciò che gettiamo. Agnese spiega che il contenuto di un sacchetto della spazzatura dice moltissimo delle persone che siamo; non siamo più ciò che mangiamo, ma ciò che gettiamo. Ancor più interessante è che nel garage della signora che si vuole disfare degli oggetti del marito morto, ci siano molte opere di Noto Pittore. Un riferimento alla rubbish art?
Più un elemento autobiografico. Un giorno cercavo cose per la casa su Marketplace, l’applicazione di Facebook e ho notato che ci sono moltissime opere di artisti minori. Mi è sembrato molto curioso e ho iniziato a vendere anch’io quadri, vere croste con descrizioni dettagliatissime e altisonanti. Mi incuriosiva vedere il mercato fiorente che hanno oggetti come questi che sono evidentemente trovati nelle case dei nostri nonni…

Perché infatti, gli oggetti ci sopravvivono…
Eh sì, anche questa è una riflessione importante che mi ha tenuto occupata, soprattutto dopo la lettura del libro di Bruce Chatwin, Utz, dove il protagonista colleziona maniacalmente porcellane. Quando verso la fine del libro Agnese ha un incidente, si rende conto che è lei che deve essere raccolta, lei ad avere bisogno e che forse siamo anche noi fragili, o più fragili delle cose.

C’è una pagina Instagram: Insta della spesa, dove la gente pubblica liste della spesa, che hanno un doppio fascino, solo serie di oggetti, verbalizzati attraverso la parola scritta.
Sì. Inoltre anche la lista è anche un oggetto piccolo e comune…mi piacerebbe essere stata io ad aprire quella pagina, ma quando l’ho scoperta io ne avevo già raccolte moltissime: quelle di mia madre, delle nonne, quelle trovate nei carrelli della spesa. Per anni ho pensato cosa ne potevo fare e alla fine me lo sono giocate così. Raccontano moltissimo delle nostre abitudini e delle nostre personalità. Un po’ come la spazzatura.