Il cancello della District Jail di Varanasi è presidiato da una manciata di poliziotti. Quello che sembra essere il «capo», corporatura spessa e denti devastati dalle foglie di pan, appena riconosce Marina si distende in un sorriso da orecchio a orecchio. «Oooh, Auntie, sei arrivata!». La madre di Tomaso Bruno, assieme a Elisabetta Boncompagni in carcere da quasi cinque anni, ormai la conoscono tutti: è la mamma dell’«angreji», indianizzazione de «l’inglese», e negli anni ha sviluppato una routine della corruzione messa in atto con una naturalezza ammirevole.

Si avvicina al «capo» tenendo piegata nella mano una banconota da 100 rupie (meno di un euro e mezzo). La tariffa per saltare una parte della fila ai controlli è cinquanta rupie a persona, incassate con le stesse movenze con cui le centinaia di spacciatori dei ghat di Varanasi, gli scalini che scendono nel Gange, dispensano droghe di vario genere ai turisti occidentali che a frotte si riversano nella città più sacra del Paese.

Le caramelle comprate al negozietto dall’altro lato della strada andranno invece ad oliare i controlli di sicurezza al di là del cancello: dolcetti per evitare, ogni volta, di setacciare a fondo due borse piene di verdura, giornali, libri e sigarette. «So che è sbagliato, ma qui in India si fa così. E se con due euro posso vedere mezz’ora in più mio figlio, allora lo faccio».
Maschi e femmine, in code separate, passano i controlli nel giro di quaranta minuti, rimessi in fila a forza di urla e bastonate da forze dell’ordine che ridono, minacciano, impongono un precario concetto di ordine servendosi del medesimo urlo onomatopeico – «Hat! Hat!» – usato dai pastori del subcontinente per ricomporre il gregge.

Tomaso ed Elisabetta ci aspettano seduti a terra sotto una veranda affacciata sui curatissimi giardini del carcere. Sono accusati dell’omicidio di Francesco Montis, morto nella camera della guesthouse dove i tre turisti soggiornavano nel febbraio del 2010. Tra post mortem approssimativi e un impianto accusatorio basato esclusivamente sul sospetto di un ménage a trois finito male – due uomini e una donna occidentale in una stanza d’albergo, in India, portano ancora oggi alla formulazione di sillogismi pruriginosi – i due ragazzi aspettano da oltre un anno che la Corte Suprema valuti l’istanza di ricorso avanzata dalla difesa. Dopo decine di rinvii, martedì 11 novembre i giudici potrebbero finalmente pronunciarsi sull’ultima sentenza datata settembre 2013. Colpevoli, in secondo grado di giudizio, di omicidio volontario. Pena: ergastolo.

Tomaso è entrato in carcere a 27 anni e, escluso un servizio realizzato di nascosto dalle Iene qualche anno fa, non esiste una sua foto recente. Ora di anni ne ha 31, i dilatatori ai lobi e il cappellino sono rimasti al loro posto, ma si è fatto crescere i baffi. Sorride, mi offre una sigaretta, e inizia a raccontare.

«La prima cosa che dovevo imparare per stare qui è stata la lingua, non potevo sempre rompere i coglioni a tutti perché mi spiegassero cosa succedeva, cosa dicevano. Ora parlo una cosa che non so bene se è hindi o bhojpuri (la lingua locale dell’Uttar Pradesh orientale, ndr), ma mi capiscono e capisco tutto. Guardo anche i film».

Nella caserma che condivide con altri 150 detenuti (tutto il carcere ne contiene 1700, il doppio della capienza ufficiale) ci sono due televisori che scandiscono l’intrattenimento collettivo. Gli appuntamenti imprescindibili sono i film del weekend, esclusivamente in hindi, con innesti di apprezzatissimi reality show (in particolare una sorta di «Indian Idol») e dei match di cricket, che Tomaso – interista – ha imparato ad apprezzare e giocare.

La convivenza in una camerata da 150 persone, organizzata a file di giacigli con lenzuola e coperte impilate a far da materasso, non è stata particolarmente difficoltosa. Tomaso ed Eli si erano conosciuti a Londra: «Siamo due persone molto adattabili. A Londra Eli aveva vissuto in uno squat e io li frequentavo. Eravamo abituati a vivere nella confusione» dice Tomaso ridimensionando l’idea terrificante che, chi non ci è mai stato, ha di un carcere in India.

Le caserme, dai racconti dei due ragazzi, ospitano una microsocietà basata su un mutuo rispetto efficace ma di facciata. Per la District Jail passano i sentenziati a meno di dieci anni – Tom e Eli sono un’eccezione concordata col direttore del carcere per facilitare le visite di Marina – e, a spanne, si riga dritto e prima o poi si esce.

«Sono entrato qui senza niente. Il giorno prima ero un turista, quello dopo un detenuto. Non abbiamo nemmeno avuto il tempo di metabolizzare la morte di Francesco. Ero terrorizzato, arrivo qui e vedo due che si menano per terra. Quello che le prendeva poco dopo mi chiama e io penso cazzo, adesso tocca a me. Invece mi dice che tutti sanno chi sono, avevano letto i giornali, e che non mi devo preoccupare, per loro sarò sempre un ospite. Era il capo della caserma».

Col tempo l’«angreji» Tomaso è diventato per tutti il «boss». Lo chiamano così, sanno che, nonostante la curiosità esotica che suscita, non devono disturbarlo quando ha in mano la Gazzetta o quando legge una delle decine di libri chiesti a Marina in questi anni: Terzani, Corona, Parassinotto, Don Winslow, Ken Follet ed Edward Bunker, fondamentale per i due, un manuale non per sopravvivere, ma per vivere in carcere. Come dice Elisabetta: «Anche in carcere c’è vita».

È vita indiana: si mangia con le mani, la carta igienica non esiste, si affrontano i diktat della tradizione, come non lavarsi col sapone o tagliarsi i capelli il giovedì e il sabato. Si aspetta da cinque anni ma non ci si dimentica di vivere e di provare a capire questo Paese, imposto per via legale a Tomaso ed Elisabetta come alle loro famiglie. «Sono passati cinque anni» spiega Marina, 61 anni, indianizzata nei modi e nel vestiario dopo anni di spola tra Albenga e Varanasi «e se mi fossi rifiutata di capire, sarebbero stati cinque anni buttati via».

«Oh, ci vediamo presto allora» mi dice Tomaso ridacchiando al momento dei saluti. «Fuori».