Il Pd è compatto, giurava ieri Matteo Orfini nell’intervista al Corsera rilasciata per dire il contrario di quanto aveva affermato la sera prima Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno. Proprio mentre Renzi faceva sapere per vie traverse di aver apprezzato quel discorso, il presidente del partito, secondo un classico gioco delle parti, smentiva detto apprezzamento: «La legislatura è politicamente terminata il 4 dicembre e solo il tentativo, difficile ma possibile, di armonizzare il sistema ipermaggioritario della Camera con quello proporzionale del Senato può prolungarla». Il governo Gentiloni non deve praticamente fare niente, essendo la legislatura già politicamente defunta, e i partiti devono dimostrare la loro «serietà» partendo senza attendere la sentenza della Consulta. In caso contrario si prenderà quel che passa il mercato, sperando che sia «il più possibile omogeneo» di per sé.

Solo che la verità è opposta. Nella corsa al voto anticipato, il Pd tutto è tranne che «compatto». Ci sono i dissensi espliciti, come quello della minoranza, da Damiano a Zoggia, da Stumpo a Gotor, ma anche del presidente della Toscana Rossi, altrettanto tassativo: «Mattarella ha detto bene. Non bisogna avere fretta». E comunque «non è nel nostro potere fissare una data: lo farà il presidente della Repubblica». Poi ci sono i dissensi che non avvertono la necessità di uscire allo scoperto, quelli degli alleati di Renzi nelle aree che fanno capo a Franceschini, Orlando e Martina.

Se questo è il Pd, figurarsi gli altri partiti. Da Forza Italia agli stessi alleati centristi del Pd la giornata si risolve in una specie di tiro al bersaglio su Orfini, accompagnata da elogi sparsi a piene mani sul discorso di Mattarella. La sola eccezione è rappresentata dal nemico numero uno del Pd, cioè dall’M5S. Anche Di Maio infatti insiste per votare nel 2017. Non ci possono più essere «mezze misure», dunque «mettiamoci l’elemetto» e di corsa alle urne. I pentastellati glissano su quale legge elettorale accompagnare all’elmetto per votare nel 2017. Non così Forza Italia, che martella sul proporzionale anche a costo di scontare divisioni sia all’interno che con i possibili alleati: non solo il Salvini che ha addirttura concordato con Renzi il Mattarellum, ma anche Fitto e, nei ranghi azzurri, il governatore ligure Toti.

Mentre infuriano le critiche scagliate contro Orfini, i piani alti del Nazareno affidano al vicesegretario Guerini il compito di abbassare un po’ i toni. Guerini in realtà non dice cose molto diverse da Orfini, però lo fa senza sguainare la scimitarra: «L’iniziativa del Pd per un confronto immediato sulla legge elettorale è il modo più serio per raccogliere gli auspici del Presidente. Sottrarsi al confronto sì che significa non raccogliere il suo invito alla responsabilità».

E’ il primo braccio ferro sulla data delle elezioni del nuovo anno. Non sarà l’ultimo. Sarà anzi bene abituarsi a uno stillicidio quotidiano e crescente di risse. Però non bisogna lasciarsi ingannare dalla cortina fumogena che riduce tutta la querelle a una questione di calendario. C’è in realtà di più. Anche quando insiste sul fatto che la legislatura è politicamente morta Orfini risponde indirettamente ad altri passaggi chiave del discorso presidenziale: quelli in cui Mattarella parlava della situazione del lavoro, dei salari e della disoccupazione giovanile in toni ben diversi da quelli trionfalistici di Poletti e Renzi, certificando così implicitamente il fallimento del Jobs Act.

L’intero apparato di riforme renziane sta crollando: la riforma costituzionale è stata abbattuta dagli elettori, quella della Pa dalla Consulta, il Jobs Act senza espedienti furbetti sarà affossato dai soliti elettori, la Buona scuola è stata minata dallo stesso governo in uno dei suoi punti fondamentali, la promessa di tagliare l’Irpef è già stata sepolta da Gentiloni, la manovra è stata approvata dall’Europa soltanto per finta e lo si vedrà a breve. Persino sull’immigrazione le parole di Minniti indicano una situazione quanto meno ambigua. Buona parte della fretta del Pd dipende proprio da questo imperativo: arrivare al voto prima che il bluff delle riforme di Renzi sia svelato del tutto.