Il 26 febbraio oltre 30 milioni di iraniani – ossia i due terzi degli aventi diritto – sono andati alle urne per rinnovare i 290 seggi del Parlamento e gli 88 posti dell’Assemblea degli Esperti: un concistoro, quest’ultimo, che ha tra l’altro il potere «cardinalizio» di eleggere il leader supremo alla morte di Ali Khamenei.

In attesa dei risultati definitivi si calcola che i riformatori abbiano ottenuto il 39% dei seggi parlamentari, gli indipendenti l’11% e i conservatori l’altra metà dei seggi. È una vittoria del riformismo? Senza dubbio, se si pensa che le elezioni del 2009 erano state spudoratamente truccate e che le elezioni del 2012 avevano visto una partecipazione inferiore di un terzo a quella attuale.

Nella megalopoli di Teheran i candidati riformisti hanno fatto l’en-plein: 30 seggi su 30. È stata sconfitta perfino l’accoppiata dei due Yazdi: l’ayatollah Mohammad Yazdi, presidente (finora) della potente Assemblea degli Esperti, e Mesbah Yazdi, padre spirituale del rozzo Ahmadinejad. E senza dimenticare che nei mesi scorsi il potente Consiglio dei Guardiani (i 12 «apostoli» nominati da Ali Khamenei e dalla magistratura) aveva invalidato centinaia di candidature sgradite alla vecchia guardia.

Chi aveva vissuto in Iran vent’anni fa e vi torna oggi non ha difficoltà a capire il perché di questo risultato. In meno di una generazione quel Paese di 80 milioni di abitanti ha vissuto una mutazione sociale: dovuta in parte all’inurbamento (oggi metà della popolazione vive nelle otto grandi città del Paese) e in parte alla digitalizzazione (non si vede più un giovane senza uno smartphone o un computer, e i giovani costituiscono la maggioranza della popolazione).

L’economia a pezzi ha fatto il resto. Così il clero della vecchia guardia ha perso parte del proprio gregge, composto soprattutto da contadini o da persone poco istruite, grazie anche alla diffusione sul territorio delle Azad, le piccole università «libere» istituite a suo tempo da Rafsanjani. Il campo di battaglia elettorale ha lasciato vincitori e vinti anche fuori dell’Iran.

Tra i vinti, Netanyahu e i suoi sodali sauditi: hanno tentato per un decennio di convincere gli Stati uniti a bombardare i siti nucleari iraniani, pur sapendo che qualsiasi attacco armato avrebbe soltanto ritardato ma non annullato il build-up nucleare. E l’onda d’urto si sarebbe propagata in tutto il Medio Oriente, soffiando sul fuoco delle guerre in corso. E chi avrebbe vinto oggi in questa tornata elettorale in Iran, se non l’estremismo della vecchia guardia?

Soltanto la sagacia di Obama e della sua Amministrazione ha saputo frenare l’avventata bellicosità d’Israele e dell’Arabia Saudita, utilizzando la carota di una pazientissima diplomazia e il bastone di Stuxnet e Nitro-Zeus (i due cyber-attacchi al sistema informatico dei siti nucleari iraniani). Quando a fine anno Obama e Kerry torneranno a casa per scrivere le loro memorie, potranno vantare a buon diritto di aver messo a segno uno dei maggiori successi diplomatici della storia americana.

Potranno raccontare quanti e quali falchi ed avvoltoi svolazzavano sopra i negoziati di Ginevra e di Vienna: dai «duri» dell’Amministrazione precedente (l’influente John Bolton, ambasciatore all’Onu di Bush, pubblicava articoli dal titolo «Bomb Iran to stop the bomb») ai «duri» di Teheran che mettevano i bastoni fra le ruote a Rouhani e Zarif; dagli israeliani ai sauditi, alleati contro natura; per non parlare del Senato americano, che continuava a minacciare di non ratificare l’accordo sul nucleare e che tuttora si ostina a classificare l’Iran uno «Stato terrorista» alla pari della Corea del Nord.