Intervisto con toni distensivi e amichevoli Elena Bucci e Marco Sgrosso, i fondatori della Compagnia «Le belle bandiere» con sede a Russi (Ravenna), realtà teatrale consolidata da 30 anni, presente sul territorio nazionale e non solo. Una recherche fuori da logiche manageriali e mercificate del Teatro.

Elena e Marco, la vostra Compagnia teatrale può dirsi un laboratorio aperto al confronto con altre esperienze artistiche e con un fine socio-culturale-pedagogico?
Elena Bucci: Da sempre siamo animati dalla curiosità verso artisti di altre discipline, dal confronto con altri linguaggi, dal desiderio di imparare e trasmettere ad altri il patrimonio tecnico-poetico dei Maestri, in un fluire di esperienze e pensiero. Continuo a pensare la Compagnia come luogo di incontri e reciproche illuminazioni, con un nucleo saldo che costruisce un linguaggio comune nel tempo, ma aperto a nuovi ingressi e al dialogo con il pubblico e gli appassionati. Vorrei che tutti praticassero le arti, a diversi livelli, in molteplici modi. È triste relegarle ai primi anni del percorso scolastico rinunciando al loro potere sovversivo e amoroso.
Marco Sgrosso: Il teatro dovrebbe sempre essere un laboratorio permanente, fucina di stimoli da elaborare e spiragli da socchiudere alla ricerca della scoperta e della meraviglia. Ha una funzione socio-pedagogica: risveglia energie insospettate e nutre l’immaginazione. L’idea che la cultura sia noiosa è un alibi per cervelli spenti. Apertura, confronto e curiosità sono necessità imprescindibili, perché aiutano a prendere coscienza del proprio valore e dei propri limiti, e a guardare il mondo da prospettive sorprendenti, scongiurando l’autoreferenzialità.

Elena, come hai ideato «Bimba ’22» e «Cento anni di Pasolini», scritture dove attraversi la «poiesis» di Pasolini e dove s’aggira Laura Betti, sua musa irrequieta?
Ho letto, ascoltato, visto tutti i materiali possibili, avuto incontri con persone che l’hanno conosciuta e ho creato una drammaturgia che non seguisse la cronologia, ma l’impulso dell’emozione e lo scorrere tra presente e passato, come lei stessa fa nella suo scrivere e parlare.« Bimba» la chiamava Pasolini e tale la vedo, coraggiosa fino all’impudenza, furiosa contro gli ipocriti, amorosa con gli amici, autentica e quindi mutevolissima negli stati d’animo. La sua presenza/assenza attraverso un gioco di ombre la rivela ancor di più, e fa innamorare anche chi non la conosce.

Marco, Ne «La tempesta» di Shakespeare, curato da Alessandro Serra, interpreti Prospero. Sono emerse affinità con la versione di Leo de Berardinis, dove interpretavi Gonzalo?
Il pensiero di Leo mi accompagna ogni sera quando dico le parole che gli sentivo pronunciare 38 anni fa con la sua voce meravigliosa. Ho costruito il mio Prospero sulla linea di una malinconia dolce per un tempo passato. Mi commuove questo mago che spezza il bastone, seppellisce il libro della sapienza e con serenità s’avvia alla fine della vita: la mia memoria si popola di persone perdute che ho molto amato. Lo spettacolo di Alessandro è visivamente bellissimo e lo era anche quello di Leo; entrambi galleggiano nella magia del teatro, incantati dal mistero della bellezza. Ci sono affinità ma anche divergenze.

Il Teatro svolge una funzione etico-politica o Leo è stato profetico: «I teatri vanno chiusi (…). Il teatro in Italia è un autogrill dove trovi di tutto (…) , ma è tutto scadente. E allora (…) via i mercanti dal tempio. C’è bisogno di un teatro che formi un pubblico nuovo (…) con artisti che si rivolgano alla collettività (…) non per fare carriera o avere un facile consenso»?
E.B.: Leo aveva la capacità di vedere con lucidità la corruzione del teatro e al tempo stesso creare uno spazio visionario e poetico dove il suo teatro e noi potevamo crescere e sperare, coltivando fiducia nella nostra arte. Il teatro deve sempre rinnovarsi, scrollarsi di dosso paure e meschinità, ritrovare l’antica vocazione: sovvertire, rivelare, scuotere, abbracciare, curare.
M.S.: La dissennata politica del Ministero dello Spettacolo premia un’assurda bulimia di produzioni, realizzate in tempi risicati, per cui nelle programmazioni di gran parte dei teatri si accatastano titoli e generi senza linea progettuale, privilegiando il criterio degli scambi: un cancro a danno di artisti e pubblico. Proprio come un autogrill della cultura con una frenesia di proposte e pochi spettacoli degni di memoria.

L’affermazione di Leo è ancora oggi un appello sacrosanto all’importanza della funzione del Teatro nella comunità civile quale strumento di pensiero etico e crescita collettiva.

Elena, il 24 giugno, al Teatro Grande di Pompei, nell’ambito del Pompeii Theatrum Mundi hai debuttato con Due Regine, testo scritto da te, diretto e interpretato con Chiara Muti. È un contrasto drammatico intriso di mistero tra Mary Stuart ed Elizabeth Tudor. Com’è nata la scrittura e perché la scelta è ricaduta su di loro?
Ho sentito il fascino di due donne dalla forte personalità che in modi opposti hanno saputo gestire il potere in un mondo governato da uomini che le ritenevano inferiori, per quanto regine. Non si incontrarono mai. E se invece si fossero parlate? Sarebbero state capaci di evitare il duello mortale? Le ho immaginate come fantasmi che scivolano via dalle tombe nell’Abbazia di Westminster. Raccontano con dolore e ironia la loro storia, ritrovando una straziante vicinanza. Attraverso di loro ho indagato ancora una volta come i meccanismi del potere possano trasformare la natura degli umani.

Marco, perché figure come Antonio Neiwiller e Leo de Berardinis non sono ricordate come si dovrebbe, rischiando di cadere nell’oblio?
Perché non si sono mai venduti/svenduti a produttori, critici e intellettuali, né al pubblico. Ricordarli come si dovrebbe non porterebbe vantaggi a nessuno e smaschererebbe molti bluff. Ma non cadono nell’oblio: la memoria della loro arte è viva nei colleghi che hanno avuto il privilegio di conoscerli, lavorare con loro e negli spettatori che li hanno visti in scena. La storiografia spesso è bugiarda: le figure ricordate non sempre hanno lasciato segni profondi nell’anima.

Elena, cosa pensi del Premio alla Carriera ricevuto il 6 agosto nell’ambito di Emilia Romagna Festival Summer?
Arriva da musicisti che amano il teatro e mi rende felice. Ho sempre amato la musica e ho sempre cercato la radice dove al teatro si unisce. Improvvisando e studiando, ho imparato molto da artisti di altre discipline, in particolare dai musicisti: la loro dedizione e capacità di dimenticarsi nella musica. Quando suonano mi paiono creature di altri mondi venuti a darci pace. Un premio alla carriera m’imbarazza: mi pare di avere appena cominciato a capire qualcosa di teatro e a ogni spettacolo imparo qualcosa in più. Lo accetto, anche se la parola carriera non m’appartiene.

Marco, com’è il rapporto con la critica?
I critici sono individui, non una massa indistinta. Ce ne sono alcuni che stimo ma ne abbiamo perduti tanti di grande competenza. Per un artista il parere del critico è importante come confronto e stimolo alla crescita, ma richiede competenza e onestà; i giudizi saccenti e gli asterischi sono inutili e ridicoli. Se penso ai nuovi recensori del web mi domando quali reali strumenti abbiano per valutare il lavoro di chi dedica anima e cervello al teatro dopo una solida formazione. So di colleghi che mandano fiori ai loro compleanni o li corteggiano perché vadano a vedere i propri spettacoli: tutto questo è insano e non ha senso.