Quando il pittore Ejnar Nielsen visitò Parigi nell’autunno del 1900, non dovette sbarcare con lo spirito del pioniere, pur giungendovi dall’eremitaggio campestre di Gjern, villaggio rurale non distante da Silkeborg al centro dello Jutland.

In città agiva ormai da tempo una colonia di artisti ‘nordici’ – danesi, svedesi, norvegesi o arrivati in Francia dalla remotissima Finlandia – che lo sciovinismo degli oriundi legava allo slogan di un’etichetta generica, pur avendo imparato ad apprezzarne stili individuali e tradizioni diverse. Infatti, se ancora all’Exposition universelle del 1878 un critico eminente come Charles Blanc poteva concludere quanto l’arte scandinava si fosse sino a quel momento limitata a vegetare, fra insipidi paesaggi e pescatori lucidi, senza aver depositato neppure un seme di genio nelle terre glaciali intorno a Oslo, soltanto undici anni più tardi, sullo sfondo la silhouette verticale della Tour Eiffel, l’opinione critica diffusa era andata modificandosi, nel riservare elogi incoraggianti a prodotti cui si attribuiva freschezza di sguardo e il pregio d’una pura ispirazione. Nel 1889, cioè, l’apprezzamento per le opere spedite dal nord si trasformò in vulgata per il pubblico squisito della Ville Lumière, coniugando il nazionalismo patriottico, la concorrenza anti-tedesca (dopo la sconfitta di Sedan) e il bisogno di novità ormai propria alla scena parigina. Del resto, di lì a qualche mese, un’ossessione non meno accesa avrebbe garantito platee adoranti alle eroine ibseniane, da Hedda Gabler a Casa di bambola, descritte nei teatri d’avanguardia grazie alla lungimiranza affaristica di Antoine e di Lugné-Poe.

Sapeva Nielsen, nato a Copenaghen nel luglio 1872, che perfino la «Revue Blanche» – quasi in chiusura di secolo – aveva editato un’inchiesta autorevole sull’influenza delle intelligenze settentrionali in terra di Francia? E che, mentre l’ eruditissimo Remy de Gourmont s’era affrettato, sprezzante, a definire epidermica la fascinazione dei suoi compatrioti verso quei colleghi lontani, alieni alla vita urbanissima della modernità europea, il sensibile Verhaeren aveva celebrato il matrimonio empatico fra diversi paesaggi dell’anima, triangolando Bruges con Montmartre e i fiordi, i canali, le geometrie terse dei panorami boreali sotto la cappa di un medesimo silenzio?

È difficile dirlo. Tuttavia i quadri presentati dall’artista alla fiera Paris 1900 – sotto ai titoli patetici de La ragazza malata e del Ritratto della vedova F. – impressionarono senza dubbio la giuria giudicante, pronta a premiarli con una medaglia bronzea, per la distanza di tono e composizione che li separava dalle tele prodotte fino ad allora dalla scuola scandinava, attiva perfino nella colonia di Grez-sur-Loing, paese non distante da Fontainebleau e dalle memorie recenti di Rousseau o di Daubigny.

Le creazioni di Nielsen, nel loro formato contenuto, più che col realismo di Anders Zorn o di Christian Korhg, dialogavano con alcuni monocromi whistleriani (ad esempio la Madre del pittore sposta in occasioni diverse, a Londra e poi a Parigi, prima di venir acquistata dalla Terza Repubblica negli anni novanta dell’Ottocento) o con le nodose anatomie di Hodler; ancora di più esse sembravano riflettere sulla monumentalità sospesa e infelice delle icone di Puvis de Chavannes, quelle dipinte nel ventennio precedente, dal Pauvre pêcheur al ritratto di Marie Cantacouzène. D’altronde già durante la sua prima maturità, nelle confidenze epistolari scambiate con la fidanzata Marie Thaarup, Ejnar aveva celebrato l’esempio del maestro lionese, riconoscendolo come modello venerato e come un dio indiscusso nell’Olimpo dei suoi connazionali; mentre non poco dovette contare, per la scelta d’un incisivo sintetismo, l’ascendente esercitato sul mercato danese da Mette Gad, la moglie nativa di Paul Gauguin, che lo aveva perfino convinto a risiedere per qualche tempo – attorno al 1884 e in anticipo su Pont-Aven – nella luce cristallina della capitale degli Oldenburg.

Proprio a Parigi, Nielsen avrebbe prodotto un manifesto esplicito del suo credo partigiano nel Ritratto di gruppo oggi al Nationalmuseum di Stoccolma, la testimonianza di un diverso aggiornamento rispetto a quelli di altri campioni della svolta simbolista sulla scena settentrionale, da Carl Larsson a Jens Ferdinand Willumsen, passando per i più esoterici Harald Slott-Møller e Akseli Gallen-Kallela.

È allora efficace che la mostra aperta fino all’11 dicembre nelle sale accoglienti dell’Hirschprung Collection parta esattamente da questo corpus, seppure in un percorso che preferisce l’andamento tematico a una scansione cronologica: perché – inaugurandosi su un altro caposaldo del catalogo dell’artista, La ragazza cieca del 1896-’98 – confronta lo spettatore (per la prima volta sin dal 1984, grazie a un evento monografico) con il nucleo più coeso della sua produzione, nutrito da un colloquio fecondo con la scena francese ed europea.

Non a caso il doppio ritratto del medaglista Andreas Hansen e della moglie Célinie Delacotte aveva decorato la copertina di un evento che, con la svolta di millennio, si era proposto di riattirare l’attenzione sulla fin-de-siècle nordica, l’esposizione curata da Peter Nørgaard Larsen intesa anche per verificare le proposte di un’altra iniziativa pioniera come quella, risalente al lontanissimo ’82, passata dalla National Gallery di Washington al Brooklyn Museum e infine a Minneapolis, col titolo bergmaniano di Northern Light.

Ricomposto un insieme tanto compatto, nutrito di memorie letterarie (da Karl Larsen a Maurice Maeterlinck, passando per il femminismo di Ellen Key) e di decantazione formale, la scelta dei pezzi conduce poi i visitatori a prolungare la visita al di là degli spazi della Hirshprung, seguendo un periplo esistenziale che avrebbe condotto Nielsen ad abbandonare le fantasie liriche, sinestetiche dei capolavori di giovinezza per assumere un ruolo istituzionale come insegnante all’Accademia di Belle Arti e, più ampiamente, la fisionomia autorevole di primo pittore della municipalità di Copenaghen. In una simile prospettiva vanno lette le prove musive per la decorazione della nuova Rådhus storicista, progettata dall’architetto Martin Nyorp, ma anche la cupola d’oro eseguita per lo Stærekassen, l’estensione déco del Teatro reale della città. Un risultato però più compiuto di questa fase estrema (Ejnar sarebbe morto nel 1956) sono i pannelli fioriti dipinti, a guerra ancora aperta, per il palazzo pubblico nel comune metropolitano di Lyngby-Taarbaek: un edificio funzionalista ideato da Hans Erling Langkilde e Ib Martrin Jensen, che nella sala dei matrimoni accoglie l’erbario fragile e stilizzato tratteggiato dal pittore, un’araldica rappresentazione della natura danese, da sempre al centro del suo sguardo laico e commosso, pietosamente rivolto alle vicende degli uomini e al trascorrere delle stagioni.