Sergej Ėjzenštejn, regista e teorico simbolo glorioso del cinema russo e sovietico, è stato molto più che un cineasta. Inventore di un vero e proprio linguaggio visuale, già a partire dall’inizio degli anni Venti non ha mai smesso di confrontarsi con la storia e l’archeologia dei media e delle arti: dall’architettura alla pittura, dalla scultura alla fotografia, dalla letteratura al teatro, dal disegno al cinema. Teorico e collezionista, lettore e disegnatore, nel corso di tutta la sua vita non ha mai smesso di ridefinre i contorni della storia dell’arte, spesso sfumandoli e oltrepassandoli.

La mostra presentata al Centre Pompidou-Metz, L’oeil exatique. Eisenstein un cinéaste à la croisée des arts (L’occhio estatico. Ėjzenštejn, un cineasta al crocevia delle arti), a cura di Ada Ackerman, storica dell’arte, ricercatrice presso il CNRS/THALIM di Parigi e Philippe-Alain Michaud, conservatore presso il Centre Pompidou, Museo nazionale d’arte moderna, responsabile del servizio di cinema sperimentale, propone di ripercorrere l’opera-mondo di Ėjzenštejn a partire dai grandi film che lo hanno reso celebre (Sciopero, 1924, La corazzata Potëmkin,1925, Ottobre, 1927, La linea generale, 1926-29, ¡Que Viva Mexico!, 1932, Aleksandr Nevskij, 1938, Ivan Il Terrible, 1944-46), passando attraverso la fase di sperimentazione teatrale dei primi anni Venti, a quella spesso più intima e rivelatrice del disegno, per fare poi incursione nell’universo del non finito, ovvero di tutti quei progetti che avrebbero dovuto vedere la luce e che per diverse ragioni di ordine politico, finanziario e biografico non sono mai stati realizzati (dal progetto di film sul Capitale di Marx, 1928, a quello sul Grande Canale di Fergana, 1939).

L’architettura e la scenografia della mostra, ispirata all’estetica costruttivista, e ideata dallo scenografo Jean-Julien Simonnot, riproduce attraverso un calcolato sistema d’impalcature la struttura stessa del pensiero ejzenštejniano sul montaggio: dal conflitto alla collisione, per giungere così allo spazio aperto dell’estasi.

Proponiamo qui di seguito la traduzione dal francese di un estratto del saggio della curatrice Ada Ackerman, che introduce il catalogo pubblicato in occasione della mostra L’oeil exatique. Eisenstein un cinéaste à la croisée des arts (L’occhio estatico. Ėjzenštejn, un cineasta al crocevia delle arti), edito da Éditions Centre Pompidou Metz, 2019.

Sergej Ėjzenštejn ha rivoluzionato la pratica e il pensiero sul cinema, e il suo apporto teorico alla nozione fondamentale di montaggio è stata significativa. Resta tuttavia un cineasta spesso ignorato dal grande pubblico e di cui molti aspetti restano inesplorati dai cinefili stessi.

In Francia, nonostante una ripresa recente degli studi ejzenštejniani, il cineasta non incarna più quella figura maggiore che aveva calcato la scena del paesaggio intellettuale degli anni Settanta, la cui opera veniva diffusa nei ciné-clubs e i cui scritti erano oggetto di traduzioni sistematiche, iniziate in particolare dai Cahiers du cinéma. In modo più generale, Ėjzenštejn gode di una forma paradossale di celebrità, come un «maestro in frammenti»[1]: la sua opera si colloca in gran parte sotto il sigillo del non finito, sia che si tratti dei sui film o dei suoi scritti; i film usciti nel corso della sua vita furono oggetto di manipolazioni e di censura; alcuni furono mutilati (¡Que Viva Mexico!, 1930-1932), altri distrutti (Il Prato di Bežin, 1935-1937). Maestro paradossale la cui celebrità è dovuta, in Russia come all’estero, alla Corazzata Potëmkin (1925), un film che è stato quasi assente dagli schermi sovietici fino agli Cinquanta, poi mostrato in occasione di celebrazioni in una versione rimontata e sonorizzata che non rendeva giustizia alla sua costruzione e alla sua potenza originale. In Unione Sovietica, il nome di Ėjzenštejn fu essenzialmente associato a Aleksandr Nevskij (1938), diffuso senza interruzioni, tranne dal 1939 al 1941, trattandosi di un film patriottico realizzato su commissione, ma verso il quale il cineasta stesso nutriva sentimenti ambivalenti. L’opera di Ėjzenštejn sembra prestarsi a un’infinità di letture e d’interpretazioni, talvolta contraddittorie, così come mostra la proliferante bibliografia che gli è stata consacrata. Stalinista, formalista, freudiano, costruttivista, omosessuale, comunista, modernista, strutturalista, intermediale, batailleano, post-moderno, warburghiano… Non finiremo mai di enumerare i qualificativi che gli sono stati attribuiti e che rivelano quanto sia difficile ridurre a un’etichetta il suo spirito dialettico, trasgressivo e intempestivo.

Il suo lavoro è stato per molto tempo rinchiuso in una lettura principalmente ideologica, di cui è esemplare la critica di Aleksandr Solženicyn in Una giornata di Ivan Denisovič (1962), che delinea il ritratto di un cineasta complice del potere staliniano: «Non parlatemi di genio. Dite che quest’uomo è un servo, che ha accettato un lavoro degradante, ma non lo trattate da genio: un genio non piega le proprie opere al gusto dei tiranni». Se la questione, eminentemente complessa della relazione del regista con Stalin continua a suscitare grandi dibattiti, necessari, alla luce degli archivi sovietici ormai accessibili, è importante anche di prendere in considerazione la portata delle realizzazioni al di là del solo contesto sovietico.

L’occhio estatico (L’Œil extatique) intende far scoprire al pubblico francese e europeo un nome maggiore della settima arte e della cultura mondiale, un uomo considerato come il «Leonardo da Vinci russo», un fabbricante e un amante delle immagini, un collezionista e un critico d’arte, un Ėjzenštejn visionario, sperimentatore radicale capace di incidere profondamente e durevolmente sullo spettatore, artista sempre desideroso di oltrepassare e trascendere i limiti dei media ai quali ricorre.

Concepita secondo una prospettiva interdisciplinare, la mostra presenta l’insieme delle attività creatrici di Ėjzenštejn: se è oggi conosciuto per il suo cinema, egli fu anche un prolifico disegnatore e un regista teatrale creativo, formato sotto l’egida di Vsevolod Mejerchol’d, che colpì per la sua audacia. Di suo padre, architetto, conserva un’inquietudine architettonica che attraversa tutta la sua opera. Tutte queste pratiche si nutrono vicendevolmente, legate da comuni preoccupazioni, che chiamano in causa il gesto espressivo, il gusto per la fisionomia, l’eccentricità, il grottesco, ma anche l’erotismo e la comicità. Perché Ėjzenštejn non è stato solo un erudito e un teorico ambizioso, ma anche un maestro di humor e trasgressione, un «Ėjzenštejn monello»[2] che non poteva accomodarsi nel letto di Procuste del piano di Stato.

(traduzione di Marie Rebecchi).

Mostra: L’ŒIL EXTATIQUE. EISENSTEIN, UN CINÉASTE À LA CROISÉE DES ARTS. Centre Pompidou Metz. Dal 28 settembre al 24 febbraio 2000.

Curatori: Ada Ackerman, storica dell’arte, ricercatrice presso il CNRS/THALIM e

Philippe-Alain Michaud, conservatore presso il Centre Pompidou, museo nazionale d’arte moderna, responsabile del servizio di cinema sperimentale.

Catalogo: L’ŒIL EXTATIQUE. EISENSTEIN, UN CINÉASTE

À LA CROISÉE DES ARTS, a cura di Ada Ackerman, Éditions Centre Pompidou Metz, 2019, 320 pp.