Nell’inverno del 1959, al largo di Terranova si scatenò una tempesta di intensità e durata fuori dal comune: «Naturalmente gli uomini speravano che la tempesta si placasse, cosa che avviene sempre, prima o poi, secondo il corso naturale degli eventi». Emblematica di una certa filosofia della vita comune a tanta letteratura islandese, questa frase è pescata dalle pagine di Gabbiani nella tempesta di Einar Kárason (traduzione di Stefano Rosatti, Einaudi, pp. 120, € 15,00) dove si racconta l’epopea del peschereccio Máfur (Gabbiano), per tre giorni e tre notti in balia del vento, delle onde altissime e soprattutto del gelo, che trasformò la nave «in una gigantesca scultura di metallo dalle fogge più svariate, tutta ondulazioni e rigonfiamenti, come se un artigiano talentuoso l’avesse plasmata secondo il suo gusto estetico».

Il libro si apre in media res, con la nave ridotta dal ghiaccio a «un corpo deturpato», per poi ricostruire a ritroso il terrificante viaggio di ritorno del Máfur attraverso lo sguardo attento di Lárus, giovane marinaio al primo imbarco, il cui entusiasmo ricorda quello del protagonista dell’Isola del tesoro. I primi giorni di navigazione verso i banchi di merluzzo al largo delle coste canadesi sono un inno all’homo faber, con un’attenzione ai gesti e agli strumenti di lavoro degni di Robinson Crusoe. Che si tratti di incordonare cavi, calare le reti – «con delicatezza, come un’ostetrica che assiste una partoriente» – o lucidare gli ottoni, per quei marinai «qualsiasi lavoro è sempre gratificante». Poi, una volta svolto il proprio compito, «potevano sfilarsi cerata e stivaloni, sedersi nel tepore del locale mensa e concedersi sigarette e grandi tazze di caffè, riprendersi e lasciar vagare la mente, esprimendo le proprie idee sul caos dell’universo».

Quando la nave torna a far rotta su Reykjavík, con la stiva appesantita dal ricco bottino di pesci, gli avvenimenti precipitano insieme al barometro. Annunciata da un mattino «ancora misteriosamente buio e il cielo di uno strano grigio piombo e scuro, anche se sopra di loro non si vedevano che poche nuvole», la furibonda tempesta costringe il vascello a una lotta epica contro onde alte oltre venti metri, dove ciascuno dei marinai reagisce in modo diverso di fronte alla brutalità della natura.

Qualcuno crolla, rinchiudendosi in un’apatia allucinata, gli altri lottano al meglio delle proprie forze: il comandante si tiene in piedi per settantadue ore di fila a forza di tabacco e caffè, determinato a riportare in porto nave ed equipaggio; il marconista resta attaccato alla radio, ma in abiti eleganti e cravattino («Nel caso dovesse incontrare il Creatore, aveva detto, voleva essere vestito decentemente»), il giovane Lárus esegue gli ordini stranito come in un incubo; il nostromo – un gigante salito a bordo ubriaco come un troll, ma marinaio esperto e coraggioso, nonché lettore di Hamsun e Laxness e autore di una raccolta di versi intitolati Poesie nell’oscurità – sebbene solo qualche settimana prima avesse tentato di affogarsi per amore della moglie che lo aveva lasciato, si ribella di fronte alla morte imminente e lotta più degli altri per salvare la nave e sé stesso: « rimaneva sì del parere che la vita non valeva niente, ma aveva capito che il mare era ripugnante, era freddo e sporco, e farsi riempire sensi e polmoni da quello schifo e morire tremando dal freddo era un pensiero insopportabile».

Nessun commento del narratore sui diversi caratteri, solo il racconto terso e apparentemente asettico, dunque ancora più coinvolgente, dello scontro impari tra uomo e natura: come ricorda la madre di Lárus al momento di accompagnarlo a bordo del Máfur, «fare il marinaio in Islanda era un po’ come arruolarsi nell’esercito in tempo di guerra».