Eftimios 13/41.

La partita a ping pong, di sera, dopo cena.

Nella casa tra gli alberi al lago c’erano due tavoli.

Il tavolo da pranzo, grande nella sala grande, per gli amici che venivano a trovarci nei giorni di festa. E il tavolo da ping pong. Regolare, regolamentare, implacabile nelle sue dimensioni verdi complete di strisce bianche. Gli avevo insegnato il gioco, i colpi, la posizione, le giocate italiana, cinese, coreana, i trucchi. Aveva imparato presto, non finiva di imparare e già insegnava. Beati i discepoli che diventano presto maestri! Beati i maestri che diventano presto discepoli! I veri maestri e i veri discepoli si scambiano continuamente i ruoli, come i padri e i figli.

All’inizio, qualche volta lo facevo vincere. Non gli piaceva perdere. Non gli piaceva perdere troppe volte di seguito. Come mascheravo la sconfitta? Forzavo i colpi fino a farli diventare troppo difficili per me stesso. Ma lui era troppo intelligente. Mi osservava quando giocavo contro altri e si rendeva conto quando li facevo vincere a bella posta, appunto forzando i colpi oltre il limite giusto. E poi sapeva che vincevo, quando volevo. Durante le riprese di ‘Angelus Novus’ avevo invitato la troupe al completo, turbolenta per troppa democrazia offerta da parte mia, e avevo battuto tutti, inequivocabilmente. Il film poteva continuare.

Poi mi ha battuto. Non mi piaceva perdere. Tiravo fuori i trucchi per distrarlo, allacciandomi fintamente le scarpe per spezzare il ritmo del gioco, parlando d’altro, commentando i colpi. Ma gli avevo insegnato anche, soprattutto, la concentrazione. «L’eroe – gli dissi una volta citando Charles Baudelaire – è colui che è immutabilmente concentrato.» Eftimios era un eroe, aveva imparato a concentrarsi ed era un eroe. Che gioia battermi! Ero il suo idolo! Che gioia essere battuto!

Una sera, verso la fine, la pallina di ping pong non si voleva più staccare dalla sua mano sinistra. Tentava di lanciarla in aria per colpirla, per batterla, e gli rimaneva incollata. La mano sinistra. Il tumore al cervello lo colpiva ai centri motori. Quella sera la lanciò con la destra e la colpì con la destra. Lo dovetti battere, per non farlo arrabbiare. Non giocammo più a ping pong. Le racchette stanno ancora lì, nella sala da ping pong della casa tra gli alberi al lago, e di palline ce ne sono più di una tra l’erba alta, non riescono a staccarsi dall’erba alta.

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