Quando Diane Baker osserva dalla finestra Tippi Hedren e Sean Connery in Marnie, Alfred Hitchcock plasmò, con le sue stesse mani, il viso dell’attrice per ottenere «la giusta» espressione corrucciata: restano queste immagini dense di impercettibili dettagli, bonariamente responsabili dei nostri coup de foudre cinematografici, rivolti a personaggi, a interpreti, talvolta a entrambi, nel magico binomio «carne e celluloide». A proposito della dialettica naturale-artificiale dell’arte recitativa, Edgar Morin sottolinea: «Si ritengono gli attori perfettamente naturali proprio quando superano sia i tic che il naturale stereotipato, e recuperano con disinvoltura le loro goffaggini e i loro sproloqui, dando l’impressione di inventare la naturalezza in ogni gesto».

Nel caso di Baker, mai espressione fu più manipolata naturalmente; noi, intanto, a ogni (re)visione, continuiamo a rimanerne rapiti. Bellezza pulita, fresca, con uno sguardo vivace tra l’impertinente e il pudibondo. Ma oltre al candore (più vero che presunto) c’è anche la bravura, spesso sussurrata da alcuni o trascurata da altri. Quando venne scelta per il ruolo di Lil Mainwaring, cognata del protagonista in Marnie appunto, Alma Reville le disse che somigliava a Grace Kelly: «Siete identiche, a parte il colore dei capelli». Come per Vera Miles e Tippi Hedren, l’ossessione da parte del maestro Hitchcock raggiunge anche lei. E durò il tempo di un film. Ma di questo ne parleremo poco più avanti.

Nata e cresciuta a Los Angeles, Baker trascorse l’infanzia in una grande casa di Fountain Avenue, zona West Hollywood. I vicini erano Helen e Melvyn Douglas (già storica ed elegante spalla di Greta Garbo e Marlene Dietrich) con i loro figli, compagni di gioco della piccola Diane e sorelle, Patti e Sheri. Fu proprio Helen Douglas, parlamentare a Washington, oltre che attrice, a instradarla verso la futura carriera cinematografica, come afferma lei stessa: «I Douglas hanno avuto una forte influenza sul mio destino professionale. Ero indecisa se concentrarmi sulla politica o sulla recitazione. Scelsi la seconda». Nel 1957 si trasferisce a New York per studiare con Charles Conrad e due anni dopo torna a Hollywood dove, grazie all’appoggio di Estelle Harman, ottiene un provino per la 20th Century Fox. Il primo ingaggio arriva da George Stevens, autore di Il diario di Anna Frank, che le affida il ruolo di Margot, sorella maggiore della protagonista, interpretata dalla meno fortunata Millie Perkins: «Un pomeriggio mi presentarono Stevens e il giorno dopo ero già in lizza per il provino. Erano anni in cui venivi spinta dalle persone in maniera sana, non c’era ancora l’ansia del non riuscire a trovare lavoro». Lungo gli anni 60, Baker puntò più alla qualità che alla quantità: i titoli preponderanti della sua filmografia sono poco più di una decina.

Truffaut, si sa, lo definì un «grande film malato»: «Marnie fu un insuccesso cocente e nello stesso tempo un’opera appassionante. Non è altro che un capolavoro abortito, un’impresa ambiziosa che ha sofferto di errori di percorso. Se il capolavoro non è sempre vibrante, ’il grande film malato’ lo è spesso, e questo spiega perché rientra, più facilmente che il capolavoro riconosciuto, in ciò che i critici americani definiscono cult movie».

Per quanto lo stesso Hitchcock dichiarò di provare forte antipatia verso i personaggi minori della storia (specialmente verso il padre di Mark), il ruolo di Lil Mainwaring, incarnato da Baker e creato appositamente dalla sceneggiatrice Jay Presson Allen (nel romanzo di Winston Graham non vi è menzione), viene ancora oggi idolatrato per il forte tasso bitchy instillato al personaggio: bastardella e maliziosa, subdola e spergiura, «’pazza’ per i bugiardi», innamorata persa del cognato Mark, disposta a tutto per tenerselo stretto e affondare la legnosetta Tippi Hedren; Lil e Marnie, un po’ nemesi, un po’ complici: tinte contrastanti e menzogne condivise tra un tè delle 5 e una telefonata rubata.

La stessa Baker, in un’intervista rilasciata a Stephen Whitty, raccontò così la sua esperienza sul set: «Hitchcock con me fu molto gentile, tanto che finite le riprese di Marnie mi recai a casa sua per parlare di altri progetti, c’era anche la moglie Alma. Morbosamente ossessionato da Grace Kelly, era alla continua ricerca di una sua sostituta per poterla «ricreare». Con me ci provò un paio di volte, poi ho chiarito definitivamente che non ero interessata».

Al di là della sua interpretazione più conosciuta, vanno ricordati anche 5 corpi senza testa e Mirage. Nel primo, è la figlia di Joan Crawford, dopo il successo di Che fine ha fatto Baby Jane?: un altro horror del filone «Psycho biddy», questa volta sotto la supervisione del vulcanico William Castle, e diventato a sua volta oggetto di culto per futuri cineasti visionari e irriverenti: Joe Dante con Matinée, e John Waters con La signora ammazzatutti (quest’ultimo ha impersonato lo stesso Castle in Feud: Bette and Joan). Baker e Crawford si conoscevano già. Il loro primo incontro avvenne nel 1959, durante la lavorazione di Donne in cerca d’amore (di Jean Negulesco), commedia definita «reazionaria» per la plateale disparità di genere in un’America tutta technicolor e sentimenti politically correct; il secondo fu durante il film di Castle; il terzo, invece, riguarda l’esperimento Della, puntata pilota di una serie televisiva NBC, con Crawford e Baker sempre nelle vesti di madre e figlia. Il riscontro col pubblico fu un disastro e gli episodi restanti non videro mai la luce.

I rapporti con Crawford, però, non furono così tragici, come la stessa Baker ha dichiarato: «Raccontare Joan non è facile. Era diabolica, ma in quel periodo aveva appena perso Alfred Steele, suo marito. E beveva parecchio. Tuttavia, quando doveva affrontare una nuova parte, diventava l’artista consumata che conosciamo tutti».

Mirage, di Edward Dmytryk, invece, s’inserisce nel filone mystery filo-hitchcockiano. Gregory Peck, Walter Matthau e Baker sono i tre protagonisti di un thriller mnemonico riscoperto solo negli ultimi anni grazie ai frequenti passaggi televisivi. Caso vuole che, per il ruolo femminile principale, era stato opzionato il nome Tippi Hedren: ma il contratto con Hitchcock, diventato ormai nodo scorsoio sempre più stringente per lei, non le permise di accettare.

Negli anni successivi la carriera di Baker si concentrò maggiormente verso produzioni televisive. Compare come guest star in telefilm di successo: Dottor Kildare, Il virginiano, Bonanza, Pepper Anderson agente speciale, Kojak, Colombo. Al cinema sono sempre meno le occasioni per ritrovarla, ma lungo gli anni 90 si distingue per pochi, brevi, ma incisivi camei. Il più importante, memorabile, resta quello di Il silenzio degli innocenti, nelle vesti della senatrice Ruth Martin. Il dialogo, tra allattamento al seno e capezzoli turgidi, in cui Anthony Hopkins chiosa con «Senatore, solo un’altra cosa: amo il suo vestito», è diventato, fin dall’uscita del film, must imprescindibile. La ritroviamo poi in tre differenti versioni materne: mamma di Sandra Bullock in The Net Intrappolata nella rete, di Matthew Broderick in Il rompiscatole, e di Hugh Laurie nella serie Dr. HouseMedical Division.

Baker si è dedicata anche alla produzione televisiva (nel 1984 ha realizzato A Woman of Substance, mini-serie di 5 episodi con Deborah Kerr e Jenny Seagrove) e alla docenza attoriale (adottando i metodi Stanislavskij e Cechov) presso l’Academy of Art di San Francisco, diventandone, nel 2004, direttore esecutivo del settore spettacolo e ricevendo, nel 2017, il dottorato onorario. Oggi, alla rispettabile età di 84 anni, compiuti il 25 febbraio, risulta ancora molto attiva come produttrice esecutiva di cortometraggi, spronando nuovi talenti a «raccontare storie che significhino qualcosa. Se ti circondi di persone buone, loro ti ispireranno. Sono stata fortunata in questo».