«Come si presenta uno che si conosce solo di sfuggita»?: con queste parole, Durs Grünbein fa il suo ingresso nella più prestigiosa accademia letteraria tedesca, la Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung con sede a Darmstadt. Richiamando scopertamente, nel titolo, il racconto di Kafka, la Breve relazione per un’accademia disegna, con tratti veloci e quasi rapsodici, l’itinerario di una crescita individuale e la curva ascendente di una maturazione poetica. In poche pagine, Grünbein, figlio della Germania orientale, accosta lo sfacelo del realsocialismo alla visita, appena cinque anni dopo, alle rovine di Ercolano e Pompei, luoghi dove gli si rende plastica la «violenta detonazione» del tempo e insieme, ai piedi del vulcano, l’esistenza di una memoria senza memoria «deus absconditus o comunque la si voglia chiamare». Mettersi sulle tracce di questa memoria è il compito della poesia.

Certo, tutto si può dire di Grünbein tranne che la sua sia un’apparizione di sfuggita: dalla fine degli anni Ottanta, enfant prodige della scrittura nella nuova Germania, ha prodotto un fiume di versi e prosa e, specie a partire dal nuovo millennio, le sue opere hanno incalzato il lettore a getto continuo, mentre premi e riconoscimenti ne facevano un vero e proprio «poeta laureato». A partire dal 1996, anche la scrittura saggistica di Grünbein è diventata pubblica e, da allora in avanti, l’editoria tedesca ha visto un fiorire di suoi testi, discorsi, scritti critici, riflessioni.

Uno sguardo mediato
Ora anche il lettore italiano, che già conosceva la sua poesia nell’efficace resa di Anna Maria Carpi e il diario narrativo Il primo anno nella versione di Franco Stelzer, ha a disposizione una piccola silloge del suo saggismo, uscita da Einaudi con il titolo I bar di Atlantide e altri saggi (pp. 147, euro 18,00) dove quindici testi, tradotti brillantemente da Giulia Cantarutti e Silvia Ruzzenenti, inquadrano bene l’arco tematico di questo poeta doctus della contemporaneità.

La musica è troppo grandiosa, l’architettura incline a rinchiudere e a recingere, la filosofia a farsi un nulla senza la lingua poetica che di gran lunga la anticipa: perciò, la poesia è superiore a ogni altra arte. Di questo, in fondo solo di questo, sembra trattare la scrittura saggistica di Grünbein. Nelle forme massime dell’epos e in quelle minime dello haiku, la poesia ha per Grünbein valore cognitivo assoluto, intercetta le urgenze del presente facendosi carico del peso, insieme splendido e schiacciante, della tradizione. Con la sua poesia, i saggi di Durs Grünbein dividono lo stile del mosaico, che sarebbe riduttivo liquidare con la categoria, tanto pronta all’uso quanto logora, di intertestualità.

Non è questione di gioco superficiale di rimbalzo fra testi, ma una profonda rete citazionale che è più modo di essere e di pensare che strategia compositiva. Lo sguardo di Grünbein coglie il mondo, gli eventi, gli oggetti in forma mediata, con il diaframma della parola scritta che riverbera quella altrui. Doppio l’effetto: da una parte sul testo, che fornisce illustrazione alla vita e, d’altra parte, sull’esistenza individuale che getta luce sul testo, diventandone similitudine, parabola e figura. La citazione è dunque intesa come disponibilità al dialogo, come spazio in cui si gioca il colloquio con la tradizione letteraria radunata intorno all’autore che la convoca.

«Nell’infinito campo del pensiero», sostiene Grünbein nello scritto C come citazione, «l’autarchia non è solo una menzogna evidente a tutti, ma è un’illusione che si smaschera da sé». Lo stile dell’autore rivela, a ogni passo, il concorrere di tessere testuali, di echi, risonanze, incroci, rimandi al canone in tutta la sua ampiezza, citazioni esplicite e coperte, in dissolvenza una sull’altra, che mai corrono il rischio di segnalare pochezza letteraria o immaturità culturale.

Al contrario, quasi il frutto di una maturazione eccessiva, la saggistica di Grünbein mostra un’esistenza ricolma di scrittura, rifratta attraverso la scrittura, divenuta essa stessa citazione. Nel «saggio poetico», formula di compendio suggerita dallo stesso autore, la traccia della parola altrui non si perde mai, generando un campo di forze dove concorrono il frammentismo romantico, gli scritti poetologici di Paul Celan richiamati con evidenza puntiforme, talora persino nei singoli sintagmi, le immagini-pensiero benjaminiane e le sue allegorie di una modernità in frantumi, l’impulso nervoso del Nietzsche che ragiona sull’origine della lingua, gli engrammi warburghiani, il tempo dilazionato di Ingeborg Bachmann, le catabasi dantesche e manniane. È impossibile, inoltre, non percepire la presenza costante, quasi una filigrana che attraversa il testo, dell’antichità classica, della sua retorica e della sua poetica, a perimetrare una scrittura che, più che sulle cose ultime, ragiona delle cose prime.

Non è di certo la mancanza di un proprio stile a spingere Grünbein al citazionismo, né tanto la riverenza verso una presunta e superiore autorità testuale, ma la fisiologia stessa dell’atto poetico e, a monte, il funzionamento del «cervello babilonico» di cui il poeta parla nell’omonimo saggio, una struttura insieme neurologica e archetipica dove si addensano le tracce di un inconscio collettivo che eccita la mente e il corpo alla scrittura. Non si tratta, dunque, di ornamentalità ma di un ordito necessario, del reticolato essenziale che dà forma al pensiero e sostanza al testo, della scrittura intesa come nodo neuronale di citazioni.

L’incrocio, nel saggismo di Grünbein, della letteratura con la fisiologia delle reti neurali è evidente soprattutto in Spezzare il corpo, discorso pronunciato nel 1995 per il conferimento del Premio Büchner, il più alto riconoscimento letterario nei paesi di lingua tedesca che assegna all’autore di volta in volta nominato dalla giuria il compito di trarre spunto dalla figura e dall’opera di Georg Büchner per esporre i lineamenti della propria poetica. È alla produzione scientifica del drammaturgo tedesco – ovvero al saggio sul sistema nervoso dei pesci, alla prolusione sui nervi cranici, alla sua anatomia comparata riflessa sul testo letterario – che Grünbein si rivolge, leggendovi il primo esempio di fisiologia trasformata in una scrittura che «assegna il primato al nervo», dichiarando il corpo istanza prima e ultima.

Due i livelli del testo
Con altrettanta incisività, Grünbein denuncia la scissione tra logos e sentimento, lo iato tra filosofia e poesia che, da Platone in qua, segna il tragitto del pensiero occidentale. La maglia citazionale, di cui l’ampia orchestrazione del saggio che intitola l’intera raccolta italiana è forse l’esempio più aperto, induce anche nel lettore un riconoscimento che, a ogni occorrenza, pone momentanei attriti al corso delle parole, producendo eccitazioni testuali, fluorescenze che fanno risaltare il testo nei suoi due livelli, del contenuto diretto e del rimando. L’esistenza individuale, sembra dire Grünbein, vive dentro la scrittura, senza sospensione, e la tradizione è possesso organico della persona, «l’attualità il vento negli occhi di Omero».