Eduard Escoffet è un poeta catalano tra i più noti a livello europeo per la sua decisa attitudine performativa. Classe ’79, docente di Poesia sonora nell’ambito del Màster en Art Sonor dell’Università di Barcellona, membro del duo musicale Barba Corsini, Escoffet intende l’atto poetico nella pienezza etimologica del termine: un «fare» che procede sinesteticamente dal visivo all’acustico, dall’installazione artistica allo show letterario vero e proprio. Cuciture (a cura di Nancy De Benedetto e Lello Voce, postfazione di Francesco Ardolino, «Chimere» collana diretta da Lello Voce e Valerio Cuccaroni, Argolibri, pp. 128, euro 16,00) è la prima silloge tradotta in italiano, coesa e fulgente, che raccoglie il meglio della produzione «lineare» di Escoffet. Come osserva Voce nell’introduzione, il libro è «anche un atto radicalmente politico contro il dovere del “buonsenso”, della rassegnazione, per immaginare di nuovo il nostro diritto all’insensatezza e al sogno, per cogliere l’opportunità, che sempre le parole ci offrono, di tornare ad essere inopportuni e decisivi».

Ed ecco un ottimo esempio di tale pratica: «se si può leggere il mondo, / perché leggere in sua assenza? // toccate il libro, / leggete il paesaggio. // se si possono esaltare le immagini esterne, / perché costruire quelle interne? / toccate il libro, / toccate il paesaggio» (Lettura del paesaggio). Toni taglienti, oracolari, provocatori. Nella postfazione Ardolino racconta gli «atti poetici» barcellonesi di Escoffet (suo ex studente) che, alla maniera di E. E. Cummings, sin dalla fine degli anni Novanta, si esibiva in rappresentazioni gestuali come «divorare interi fogli del quotidiano El País, con un’ingestione peraltro pericolosa di inchiostro, ma con una simbologia fagocitatrice di per sé evidente e eloquente». Sempre in lettere minuscole, tenacemente civile, la lirica di Escoffet è saldata all’illocuzione e all’oralità (lampante è il contatto con la tradizione valenziana medievale): diviene così un continuo invito a rendere materici i versi. Emblematica, a tal riguardo, è la graffiante casa, granaio e stalla: ricostruire le tenebre: «e dio disse: che gli uomini parlino. / e gli uomini costruirono case per murarcisi dentro: / non avevano più bisogno di andare alla ricerca delle cose, / tutto aveva un nome, aspettavano solo il perdono dell’alba».

Cos’è esattamente la poesia sonora?
È un sottogenere che nasce in Francia negli anni ’50 con la commercializzazione dei registratori a bobina aperta (Revox) e che si diffonde rapidamente in tutta Europa. La poesia sonora sostituisce il libro con il disco o la performance dal vivo quale mezzo di divulgazione, e pone la voce e il suono in generale al centro della creazione poetica. La poesia sonora incorpora la respirazione e il montaggio con la voce dell’autore. Inoltre, parallelamente al caso della poesia concreta o della poesia visiva, genera una complessa rete internazionale di scambio ed esecuzione che supera tutti i confini nazionali e linguistici. Questa rete di poeti coincide una delle mie più forti influenze dal punto di vista letterario. Mi sono sempre sentito legato alla poesia sonora e al suo modo di intendere la creazione poetica, ma è solo un aspetto della mia opera. Mi avvicino anche alla performance, alla musica tradizionale, che è una sorella della poesia. Per me il fatto centrale, al di là della nomenclatura, è riportare la poesia alle sue origini: restituirla all’oralità e all’azione comunitaria. Per questo trovo così importante il recital dal vivo e il legame tra poesia e voce (o suono). La poesia deve avere la fragilità di una costruzione che sorge e scompare in un momento specifico in un luogo specifico. Una volta che accade, deve rimanere solo il ricordo. E l’impatto.

Nella lirica «bingo» lei scrive che «bisogna passare all’azione». Mentre in «impazienza» è detto: «l’azione della poesia / si prolunga di qualche minuto». In cosa può consistere una poesia «attiva», dinamica?
In bingo agire significa chiudere immediatamente il libro. La maggior parte delle poesie incluse in Cuciture sono pensate per essere lette come un testo, in privato, e quindi c’è una tensione costante tra ciò che accade nel libro e la realtà di quello che è fuori di esso. In effetti, anche la realtà chiede di essere letta. Si deve passare così all’azione in un secondo momento, come se fosse un contrappunto alla contemplazione che nasce dalla lettura. Mi interessa inoltre evidenziare che la politica è spesso piena di comizi e di grandi dichiarazioni, ma essa ha soprattutto bisogno di azione. È necessario che ci sporchiamo le mani nelle azioni quotidiane. Nei piccoli gesti quotidiani ci sono grandi rivolgimenti politici.

Quali sono i suoi principali riferimenti poetici?
I miei maestri sono molto eterogenei. Parto dalla letteratura catalana con autori cronologicamente e tematicamente assai distanti fra loro, come Ausiàs March, Joan Brossa, Salvador Espriu e Carles Hac Mor. Ma considero anche poeti di altre latitudini, e cioè il francese Bernard Heidsieck (tra gli inventori della poésie sonore e della poésie action, ndr), il canadese Barrie Phillip Nichol, lo scozzese Ian Hamilton Finlay e Paul Celan.
Sono particolarmente interessato agli autori che hanno voluto evitare i sentieri già battuti e hanno prodotto cose proprie, ricercando da soli e creando senza fretta o pressione. Come molti altri poeti, sono stato influenzato dal mondo della musica e dalle arti in generale: dai Kraftwerk e dalla techno berlinese a Miró. Del resto, mi piace spesso sottolineare che gran parte del mio lavoro è stata scritta in aeroporti, stazioni, hotel, treni e aerei, così come nei club di musica elettronica e passeggiando per le città.

La sua scrittura è radicata a Barcellona. Quanto è importante per lei la Catalogna e la lingua catalana?
Penso che l’essere nato a Barcellona abbia fortemente influenzato la mia scrittura e la mia visione interdisciplinare, forse anche la mia vocazione «internazionale» tout court. La lingua presa in sé è di relativa importanza, nel senso che non scegliamo la nostra lingua madre, né il luogo in cui nasciamo. Diversa cosa è invece utilizzare con consapevolezza una lingua che si conosce profondamente – un elemento essenziale per la poesia, a mio avviso – o scegliere di scrivere in un’altra lingua che consente di raggiungere opportunità più commerciali. Ho sempre cercato di preservare un idioma poco conosciuto (come il catalano) e, allo stesso tempo, di lavorare in un contesto internazionale, oltre i confini linguistici. D’altra parte, direi che la letteratura catalana ha una tradizione poetica davvero importante, piena di grandi voci con cui mi piace mantenere un fitto dialogo.

Come vede il fenomeno degli «instapoets», che divulgano i loro testi sui social network, in particolare su Instagram e Tumblr, riscuotendo enorme successo e migliaia di visualizzazioni?
Ritengo che la poesia possa avere infinite forme e aprire infinite porte al pubblico. E ognuno può scegliere la propria. Personalmente, potrei non essere molto interessato come lettore al tema dell’instapoetry, ma è una questione di temperamento o di gusto soggettivo. Tuttavia, Instagram dimostra – ancora una volta – che la poesia è ovunque e ha molteplici possibilità espressive, tutte valide.