La città di Stamford nel Connecticut, nota per essere il luogo d’ambientazione della fortunata sit-com Tutto in famiglia, ha dato i natali al «padrino del poème en prose d’America», ossia Russell Edson, classe 1935, scomparso nell’aprile del 2014. Figlio del fumettista Gus, autore grandemente sottovalutato e tenuto ai margini del canone, Edson ebbe un fan d’eccezione in Charles Simic, il quale attraverso ritratti, rivisitazioni e commenti è riuscito a imporne il nome tra gli artefici più strampalati del minimalismo poetico statunitense, inserendolo nel novero ideale dei suoi ispiratori.

Ecco che Edson arriva in Italia, per la prima volta compiutamente, grazie all’antologia Il tunnel (con introduzione di Charles Simic, traduzione di Clarissa Amerini e Bernardo Pacini, Taut Editori, pp. 116, € 10,00), con un manipolo di testi da Proprio la cosa che accade (1964) a La colazione ferita (1985), passando per Ciò che un uomo può vedere (1969), Il teatro della vongola (1973), L’infanzia di un fantino (1973), Il viaggio intuitivo (1976), Il motivo per cui l’uomo-armadio non è mai triste (1977). In effetti, i titoli delle opere sono già un programma. Inutile sottolineare preventivamente che Edson non fa distinzione tra poesia e prosa, e anzi l’esibito mélange dei generi è la spia di una precisa non-volontà artistica. Osserva Simic nella presentazione: «Edson ha dichiarato di aver voluto scrivere senza debiti o obblighi nei confronti di alcuna forma o idea letteraria (…). Come ebbe a dire, ciò che della poesia in prosa lo appassionò fu la goffaggine, la mancanza di ambizione e il senso dell’umorismo. Se poi il prodotto finito diventava letteratura, era una conseguenza del tutto fortuita».

Di sense of humor, nel florilegio curato con molta grazia da Amerini e Pacini, ce n’è a iosa: vediamo un contadino che si fidanza con il suo cappello di paglia – cosa, peraltro, non pienamente surreale negli Stati Uniti –, una sala da pranzo che sta vomitando alla buon’ora, musicisti che in bilico sugli alberi suonano l’happy birthday ai loro cagnolini, l’uomo roccia in preda a dubbi amletici mentre «aspetta di essere una roccia», il Signor È (di herbertiana memoria) che afferma risolutamente: «Ho chiuso coi pensieri». Persino una «tazza del cesso» che «striscia su una pista bagnata verso il salotto, con la pretesa di essere amata». Insomma, Robert Walser con le sue favole incapricciate non è nato invano, e al di là dell’Atlantico – in virtù del consueto oggettivismo post-consumistico – ne sono consapevoli.

Il critico Peter Schejeldahl ha evidenziato che le liriche di Edson hanno «la costante stravaganza dei vecchi cartoni animati della Warner Bros», affermazione oltremodo puntuale se si ha in mente un brano come Il taxi, la cui fulminea capacità di replay rimanda proprio all’immaginario dei cartoons: «Nell’oscurità della notte chiamo un taxi. Immediatamente il taxi sfonda il muro; non importa che la mia stanza si trovi al terzo piano, o che l’autista giallo sia un groviglio di canarini che si scompone in zampilli gialli svolazzando fuori dal finestrino. / Quando mi rendo conto di essere coinvolto in un evento eccezionale, prendo il telefono e disdico il taxi: tutti i canarini fluiscono dentro il taxi ricomponendo il groviglio nella forma di un uomo. Il taxi esce e il muro si ripara… / Ma non posso impedire ciò che sta accadendo; quando prendo il telefono per chiamare il taxi, questo sta già sfondando il muro, il suo autista giallo già si scompone svolazzando».

Edson ha confessato in una circostanza che «ovunque voglia andare l’organo della realtà (ovvero, il cervello)», egli lo segue «con la matita blu della coscienza». È una frase mirabilmente bizzarra al pari delle sue creazioni: indice, in ogni caso, del bisogno intrinseco di una correzione esistenziale. Ciò che il poeta presenta ai nostri occhi – con piglio a tratti struggente e malinconico – è, infatti, una continua dispercezione cognitiva, un errore persistente nella decrittazione del reale, nell’interpretazione dei segni di cui è popolato il mondo: di qui le agudezas e l’eventualità del «tunnel» come «oscurità che la penetrazione rende solo più oscura», ma anche la speranza della luce «non ancora accesa», di un universo «proteso all’incontro». Di qui, in ultimo, l’importanza gnoseologica di un uomo che scrive, estraneo ai cicli vichiani della storia. «Un uomo scrisse testa sulla testa, mano su ogni mano e piede su ogni piede. (…) L’uomo disse, posso scrivere padre sul padre? / Sì, disse il padre, perché un padre non riesce a sopportare tutto questo da solo. / La madre disse, io me ne vado se viene tutta questa gente a cena. / Ma l’uomo scrisse cena su tutta la cena. / Quando finì la cena il padre disse al figlio, scriverai rutto sul mio rutto? / L’uomo disse, scriverò Dio vi benedica su Dio».