Di nuovo, è un clamoroso fatto di cronaca – il rapimento nel 2014 di un centinaio di studentesse da parte delle milizie di Boko Haram e la loro successiva segregazione in schiavitù nella Nigeria settentrionale in preda alla follia del terrorismo islamico –– a fornire l’innesco per l’ultimo romanzo di Edna O’Brien, Ragazza (traduzione sicura di Giovanna Granato, Einaudi, Stile libero Big, pp. 200, € 17,00). Esplorando parabole individuali in cui si riverberano trame sociali di tragica attualità, la scrittrice irlandese si era già misurata con la storia contemporanea, per esempio in Uno splendido isolamento del 1994, tra le cui pagine nemmeno i fatti più intimi dei personaggi venivano risparmiati dalle ripercussioni degli scontri settari fra unionisti e repubblicani in Irlanda del Nord.

Se allora il contesto restava circoscritto alla tanto amata quanto odiata madrepatria, negli ultimi anni O’Brien è passata a prediligere fenomeni di risonanza mondiale: già in Tante piccole sedie rosse, datato 2017, conquistava la scena un fuggiasco sotto mentite spoglie, che era stato genocida durante la guerra dei Balcani.

Deludenti esiti letterari
A Edna O’Brien, che legittimamente rivendica una candidatura ad ambasciatrice ‘globale’ dei diritti delle donne, non sono del resto mai mancate l’energia e le doti letterarie per articolare efficaci e coinvolgenti denunce delle sofferenze dovute al patriarcato e ai sistemi teocratici. Non a caso, i suoi ultimi romanzi si rivolgono a un uditorio assai più vasto di quello a lei consueto, la platea euroamericana, proiettandosi verso culture e sensibilità in grado di valorizzare soprattutto la profonda empatia militante con cui ha rappresentato le vittime della misoginia e le sue aberrazioni.
In Girl, questa tendenza viene ribadita, declinando temi e forme lontani dalla tradizione irlandese. Fin dal titolo, è chiaro il riferimento alla trilogia delle Country Girls, romanzo che fece conoscere O’Brien in tutto il mondo; ma nella nuova e più generica formulazione, pare che l’autrice desideri piuttosto segnalare l’avvenuto passaggio da un’esperienza discreta e provinciale a un respiro generale, o meglio ancora, di genere.

In questa prospettiva, il racconto si rivolge a tutti quei lettori che da ogni parte del mondo sono stati toccati dall’atroce vicenda di Boko Haram, insistendo su frangenti (come quello in cui Rebecca, la stessa donna che due anni fa venne ricevuta dal Papa, fugge dai suoi rapitori lanciandosi dal camion in corsa) e dettagli cronotopici (l’ombra del tamarindo presso il quale avvengono alcune delle scene più cruente durante la prigionia) che innervano la narrazione più ‘canonica’ del rapimento, a partire dal reportage curato per la Cnn da Isha Sesay e non a caso intitolato Beneath the Tamarind Tree.

Al tempo stesso, tuttavia, non mancano le allusioni a precedenti opere della scrittrice irlandese, in grado di gratificare la schiera degli aficionados, cui viene delegato il compito di intravedere i fantasmi di personaggi e luoghi già presenti nei precedenti romanzi: per esempio la foresta stessa, già eletta a simbolo oscuro e teatro di sevizie.

La scelta tematica di Girl è interessante e l’affinità con l’impegno dell’autrice garantita, ma ciò non basta a qualificarne l’esito letterario, tant’è che se la sciagura delle studentesse di Chibok verrà ricordata probabilmente non sarà attraverso questo testo. Resta la prosa asciutta, a tratti brusca e brutalmente nitida dell’autrice, soprattutto a fronte della descrizione dei molti traumi seminati nel testo, che nei passaggi di contrappunto più adeguati lasciano insinuare sprazzi di lirismo accattivante e immagini di grande forza simbolica: proprio in questi passaggi, la narrazione viene però messa in crisi da una consequenzialità che si direbbe volutamente confusa e da alcuni sbandamenti nella messa a fuoco in ragione dei quali il lettore fatica a capire: non si distingue un fatto accaduto da uno immaginato, un evento del passato da uno presente, né tanto meno si riesce a verificare quanto sia di volta in volta rimandabile alla percezione della voce narrante.

L’indeterminatezza è evidentemente ricercata ed esteticamente motivata, e la conseguente sosta nel vago trasporta il fascino della lettura, senza diminuirlo, anzi inducendo un disorientamento che riflette l’affollarsi di traumi e di angosce cui è sottoposta la resistenza psicologica delle protagoniste: sia mentre vengono schiavizzate dai terroristi, sia quando ricevono gli ipocriti interessamenti dei media e del governo, sia durante il tentativo di tornare a una qualche normalità nelle loro originarie comunità, in condizioni di sicurezza che restano a lungo un miraggio.

Tenacia femminile
Il sentirsi in trappola, l’impossibilità della fuga e l’impotenza di fronte a quella che la protagonista chiama l’«immunità» del potere accompagnano la crescente consapevolezza di una sostanziale continuità fra i lasciti delle violenze fisiche – «c’è sporcizia su di me e dentro di me, la sporcizia delle loro azioni» – e la diffidenza degli organi statali prima, e persino della tribù di provenienza poi.

Come già la protagonista di Piccole sedie rosse, anche qui Maryam viene ripudiata in quanto donna violata, in quanto madre di una figlia in cui scorre il sangue nemico di un jihadista, e in ultima analisi in quanto testimone da silenziare, la cui pretesa di autonomia va neutralizzata, senza risparmio di violenze fisiche e psicologiche.

Alla tenacia della solidarietà femminile è affidata la speranza, incarnata soprattutto dai personaggi di Maryam e di Buki, «l’una la cima di salvataggio dell’altra», a loro volta specchio delle amiche conflittuali Cait e Baba in Ragazze di campagna. Il finale, con la presenza di Suor Angelina, rimanda agli intrecci di Edna O’Brien pervasi da una spiritualità non convenzionale, quasi ironica: un antidoto alla disperazione, e insieme una ricerca di trascendenza, che anche di fronte alla cecità della violenza misogina e patriarcale porta O’Brien a suggerire come il dissesto etico che ne deriva riguardi non quella o quell’altra etnia, o religione, bensì l’intera umanità.