Circolano «molte cose non vere su di me», ha dichiarato di recente Edna O’Brien, aggiungendo con rammarico: «ciò che mi ha dato fastidio è essere ricordata per le feste che organizzavo a Londra negli anni sessanta. Mi piacevano i party, ma non c’è stato solo quello. Ho avuto un’infanzia tormentata, ho cresciuto da sola i miei figli e mi sono dedicata con grande rigore e impegno alla scrittura grazie anche ai drammi e alle difficoltà. Non si può avere allo stesso tempo una vita facile e scrivere un libro importante».

A ottantasei anni, e con alle spalle mezzo secolo di carriera riversato in una trentina di opere – diciotto romanzi e otto raccolte di racconti –, O’Brien fa ancora fatica a scrollarsi di dosso l’icona brillante dell’intellettuale salottiera, la scrittrice spregiudicata che, ai suoi esordi e in avanscoperta, si espose senza remore alla sfida di temi proibiti: dalla denuncia dei «peccati» piccanti della sua nativa Irlanda cattolica – che le costò il rogo sui gradini di una chiesa di Ragazze di campagna, il suo primo romanzo del 1960 – all’analisi disinibita della sessualità femminile e maschile. È dunque l’immagine di una donna moralmente disinvolta quella che trionfò con successo negli ambienti radical chic della swinging London anni sessanta, a scapito di gratificazioni più solide ai fini del suo contributo alla storia letteraria.

Forse per questa ragione, sostenuta da un background di ben altra durezza, accantonando il glamour scandalistico che l’ha resa celebre, oggi O’Brien rivendica, giustamente, il suo indefesso lavorio verso la perfezione nella scrittura. Se l’è imposto come disciplina di una sua dote naturale ma non ammaestrata, nonché come un modo con cui venire a patti con i danni del suo matrimonio disastroso e con le origini contadine nella bigotta Contea di Clare: fantasmi ossessivi dai lei esorcizzati (ma non alienati) anche grazie alla guida un po’ deragliante del grande psichiatra scozzese Ronald Laing. Nonostante precedenti versioni dei suoi libri, in Italia l’opera di Edna O’Brien si è andata affermando solo di recente (presso Feltrinelli, Elliot, e/o), prima con i romanzi e l’autobiografia Country Girl (Elliot, 2013), e adesso con un’edizione alleggerita dell’ultima selezione di racconti, Oggetto d’amore (2013, traduzione di Giovanna Granato, Einaudi «Stile Libero Big», pp. 364, euro 18,50), mentre si attende, ancora presso Einaudi, The Little Red Chair, il romanzo appena uscito in Inghilterra.

Pubblicati in volumi o su varie testate (incluso il «New Yorker») tra il 1968 e il 2011, nel nuovo assetto questi diciassette racconti sembrano disegnare un percorso di vita – quasi un’odissea personale – che prende avvio da un villaggio dell’Irlanda rurale degli anni quaranta e approda a mondi londinesi e cosmopoliti, per poi riavvolgersi con sguardo meno memorialistico sull’Irlanda insanguinata dell’Ira e quella dei nostri giorni. La cesura più netta cade proprio sul racconto eponimo, la storia di una divorziata, bella e famosa, facile preda di innamoramenti tempestosi, recidiva nella sua ricerca dell’«oggetto dell’amore», ridotto a un feticcio ingannevole, umiliante e evanescente.

Segnato, non a caso, da una vena tragico-umoristica, Oggetto d’amore costituisce il perno autoironico e autocritico su cui, nonostante la diversità dei contesti, girano i destini di donne upper class, trasgressive e audaci, e di sprovvedute ragazze irlandesi che provano a liberarsi dall’involucro di religiosa grettezza che le ha nutrite, riproponendosi come eterne vittime della propria cultura. Tutte restano schiacciate dalle sconfitte, impotenti a gestire le delusioni delle varie forme d’amore; anche l’amore, stranamente luminoso nella sua ambiguità, per e di una suora, come si legge nel racconto «Suor Imelda». L’orologio scorre in queste storie, i paesaggi cambiano, l’esilio – quando c’è – gratifica ma non consola, e resta la fragilità dell’essere di fronte alla vita, qualsiasi vita, anche quella di Rafferty, lo spalatore emigrato a Londra, l’indomito e patetico protagonista di «I re della pala», il penultimo racconto che sfiora la denuncia di un rinnovato colonialismo. «La mia opera – ha detto O’Brien – ha a che fare con il senso della perdita tanto quanto con l’amore. La perdita dell’amore, la perdita del proprio io, la perdita di Dio». Si può aggiungere: la perdita di una patria claustrofobica amata e temuta.

Gli otto racconti che precedono «Oggetto d’amore» costituiscono dunque la piccola epopea irlandese di Edna O’Brien. Riconoscere una sintonia con il modello di contemporanei e antesignani (il protestante William Trevor e il cattolico James Joyce) è quasi d’obbligo, ma in realtà il mondo da lei antropologicamente ricostruito (e il metodo che adotta) è diverso, per topografie e condizioni sociali e per la prospettiva che è, come ovvio, femminile. «La vita dell’immaginazione comincia nell’infanzia – ha dichiarato O’Brien –, è lì che sono deposte tutte le nostre associazioni e sensazioni». E quindi, il piccolo borgo rurale di Tuamgraney dove è nata; la madre bigotta e remissiva, bloccata nel suo ricordo dell’America dove era emigrata e dove continua a sognare di tornare; il padre alcolista, giocatore d’azzardo, violento e fallimentare (uno come tanti), costituiscono l’humus di famiglia su cui crescono i racconti. E quanto al contesto, «la vita era dura nella loro fattoria tra i monti irlandesi», si legge all’inizio del primo racconto: un pezzo di terra da curare, mucche da mungere, galline e maiali da accudire, latte da scremare, letame da spalare, torba da trasportare: «lavori maschili – non ricordava di aver fatto mai altro in vita sua», rimugina Mary, la protagonista sognatrice di «Bagordi irlandesi».

Questa fu negli anni quaranta la vita delle figlie di un’Irlanda indipendente. C’è da chiedersi quanto – dal suo dolorosamente separato angolo britannico nell’Ulster – sarà stato d’accordo lo Seamus Heaney di Morte di un naturalista: «Da sotto la finestra, un suono aspro e netto / quando la vanga affonda nella terra ghiaiosa: / mio padre che scava». Il mondo di O’Brien è un altro: nella sua ricostruzione gli uomini (con l’eccezione dei preti) sono assenti (o ubriachi) nel contributo alla crescita della nuova nazione. Siamo ai tempi del governo di Éamon De Valera, che nella Costituzione del 1937 sentì cattolicamente di dover sancire per le donne un posto sicuro – e di redditizia economia – nelle mura di casa e chiesa, famiglia e fattoria, mentre si avviavano col matrimonio alla serie di devastanti travagli da partorienti. Il rituale non sfugge a O’Brien che lo descrive con crudezza in «Una rosa nel cuore di New York»: «Aggrappata al copriletto – la madre – ricordava che fra quelle stesse lenzuola tutte rappezzate aveva dovuto spalancare le gambe a viva forza, di continuo, senza una parola, senza un briciolo d’affetto, sfondata e basta con l’ordine di aprirle di più. Sposandosi era sfuggita a un destino da serva, forse a una vita in qualche lugubre istituto, eppure a mano a mano che il tempo passava e la cassa del corredo si svuotava dei suoi doni, aveva capito di essere destinata a servire in tutt’altro modo».

Si comprendono, dunque, le tentazioni delle figlie, le ribellioni, i «peccati», che le portano al convento o a subire l’esorcismo, di cui si sospetta sia vittima la Eily di «Una donna scandalosa», che – innamoratasi di un mascalzone – viene sorpresa dal padre armato di roncola «nella posizione più satanica, con il ventre in bella vista». «Dannata nel corpo e nell’anima», Eily si riduce a un guscio vuoto: «La sua cosa più preziosa non c’era più, il suo gioiello. L’interno di una donna era una specie di piccolo orologio e una volta che il gioiello o i gioielli non c’erano più, l’esterno era una frode bella e buona».

O’Brien ha raccontato che fu una conferenza su Hemingway e Fitzgerald a Londra ad aprirle l’orecchio all’arte del racconto. Fu «folgorante» – ammette – scoprire la scarnificazione poetica raggiunta nella prima pagina di Addio alle armi, l’accurata limatura della lingua a vantaggio dell’emersione di echi e assonanze simboliche. Su questa strada esemplare avvia il suo «rigore» verso la perfezione della scrittura, che è, sì, essenziale e lirica, ma è anche una scrittura piena, priva delle ellissi di Hemingway e dei suoi sottofondi sommersi; piena e senza epifanie, soprattutto mirata a raggiungere la tensione clou del racconto, ciò che Edna O’Brien ha chiamato «lo strappo e la trazione» (the tug and traction), sempre necessarie a un «racconto perfetto».