Una piccola, elegante esposizione delle incisioni di Renato Bruscaglia, organizzata dalla figlia Marta insieme all’artista e incisore Giordano Perelli alla Mediateca Montanari di Fano, offre l’opportunità di ripensare un mondo culturale probabilmente al tramonto. Non marginale, poiché la marginalità era un suo punto di forza, ma desueto. Renato Bruscaglia era nato a Urbino nel 1921 ed è morto a Bologna nel 1999. Si era formato alla Scuola del libro della sua città e aveva insegnato incisione all’Accademia di belle arti di Firenze, prima di dirigere l’Accademia urbinate. Ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 1956 e nel 1962 e a varie importanti mostre nazionali e internazionali. Fa parte di quegli artisti che cercano di incidere la traccia di un’emozione con un segno minimo. Nelle trame di quei paesaggi sembra di percepire l’aria che scorre.

«Noi comunichiamo con il bianco e il nero – ha scritto – da cui la natura non sa ricavare nulla. Non sa fare nulla con un po’ di inchiostro». Ricorda quello che ha scritto il linguista americano Derek Bickerton: «Quello di cui la natura non ha bisogno», cioè il linguaggio. Affermazione vagamente leopardiana, tuttavia l’attrazione è fatale, e le visioni della natura muovono il suo bulino. Nelle immagini di Bruscaglia questo confronto innamorato con la realtà fa nascere linee essenziali, e i paesaggi, collinari o marini, non si fissano in una allusione metafisica, come per Morandi, ma sembrano galleggiare in una dimensione onirica, quasi-realistica. «Bisogna che un luogo diventi paesaggio interiore, perché l’immaginazione prenda ad abitare quel luogo, a farne un suo teatro», aveva scritto Italo Calvino.

Dunque, una bella mostra che fa riflettere sulle edizioni d’arte, infatti ne sono esposte alcune davvero notevoli, come il Libro con me con versi di Ercole Bellucci e altre con testi di Paolo Volponi. Siamo nella Urbino che sembra irradiare le ultime luci del suo sogno rinascimentale. Indubbiamente giungono fin qui. E allora viene da pensare a tutte quelle plaquette che venivano scambiate e forse ancora vengono scambiate negli incontri tra poeti, letterati, artisti. L’editoria d’arte, definita dai curatori  «l’editoria sensibile», non è semplicemente una varietà secondaria del commercio di opere d’arte, per quanto a volte il mercato finisca per inglobarla o riassorbirla; è soprattutto un dono, e come dono, che una civiltà culturale usa negli scambi, (uno scambio privo del valore di scambio, un po’ come avveniva in certe culture che indebitamente definiamo primitive), serve a conoscersi, innescare relazioni, discussioni, valutare le impressioni, stabilire legami. Anche per questo, nonostante la preziosa povertà dell’involucro e l’esiguità dei testi e delle opere d’arte che contiene, un’edizione d’arte è il risultato di una scelta molto accurata e un confronto aperto tra uno scritto e un’immagine. Non è detto che si stabilisca una sintonia. A volte funzionano come anticipazioni. Si annusano gli umori.

Resta in ogni caso quel significato prevalente del dono. Un dono di qualità, di intelligenza e grafica creativa. Queste edizioni «fuori commercio», numerate, (alcune invece commercializzate e acquistate a prezzi piuttosto alti), rappresentano una civiltà culturale ormai sostituita da una più veloce e standardizzata rete di incontri, toccate e fughe senza musica, e una qualità dell’oggetto libro che raramente si permette il lusso di farsi amare. Chissà, forse non è vero niente. Ma questa ammaliante mostra di Renato Bruscaglia, che resterà aperta fino al 16 ottonbre, suggerisce una luce che ha intensi bagliori poetici mentre si allontana, un po’ malinconicamente, come in certi suoi paesaggi.