«Bona çent, entendetelo, / perqué ’sto libro ài fato: / per le malvasie femene / lo àio en rime trovato».
Fu una scelta di Gianfranco Contini quella di arricchire i suoi memorabili Poeti del Duecento con una sezione intitolata alla ‘Poesia didattica del nord’, e la cadenza misogina dei Proverbia que dicuntur super natura feminarum non poteva non farne parte. I Proverbia si allineano docilmente a una ricca silloge di testi, in verso e in prosa, in volgare e in latino tutti depositati nel venerando manoscritto Hamilton 390 della Staatsbibliothek di Berlino: l’antichissimo gazofilacio della nostra letteratura delle origini proveniente da un’area settentrionale di difficile perimetrazione. E così, mentre altrove Guittone d’Arezzo e Bonagiunta cedevano malvolentieri il passo alla poesia nuova di Guinizzelli, Dante e Cino, tra Cremona e Venezia si traducevano e si raccoglievano aneddoti edificanti adatti a porgere al lettore di turno opportuni insegnamenti morali.
La storia dell’Hamilton 390 segue lo sfacelo delle Wunderkammern che a partire dal tardo Cinquecento – ultimo atto della ormai esausta rivoluzione umanistica avviata due secoli avanti – abbellirono palazzi signorili e ville di campagna delle grandi famiglie nobiliari del Veneto. Signori di schiatta o parvenus arricchiti investirono le proprie finanze accumulando senza posa manoscritti, incunaboli, epigrafi, monete, medaglie, cimelii d’ogni genere dando vita a veri e propri musei domestici ora per candidarli a tappa obbligata dei tradizionali grand tours ora per aprirli generosamente alla curiosità di amici e studiosi. Fra coloro che si distinsero per munificenza e ardore collezionistico figura, ai primi del Settecento, il veronese Giovanni Saibante: «Non ci fu mai chi con più avidità, ed a maggior prezzo cercasse cose rare, e singolarmente manoscritti, strumenti matematici, armi strane, ed ogni sorta di arnesi da galleria, del sig. Giovanni Saibante, gentiluomo di grandi e nobilissimi spiriti, di cuor sincerissimo e di rigorosissima puntualità (…) Compiacquesi sopra tutto d’incettar testi a penna, e vi riuscì con tal fortuna, che sopra mille trecento manoscritti gli venne fatto di raccogliere». Così nel bel ritratto affidato alla penna del conterraneo e sommo erudito Scipione Maffei, che della monumentale biblioteca stilò un provvido inventario e che del Saibante aveva «levati al sacro fonte» tutti i figli. Uno di questi, Giulio, tralignò e – sic transit – vendette la biblioteca. Poco male, almeno all’inizio, perché i libri furono acquistati in buona parte da un altro collezionista veronese, il marchese Paolino Gianfilippi. Fu un salvataggio effimero perché il codice in questione migrò presto in Lombardia, ad arricchire la collezione del grecista Luigi Bossi e da qui, in un inesausto via vai, fece ritorno in Veneto, precisamente a Venezia, nella biblioteca dell’abate e precettore di casa Barbarigo, Luigi Celotti. Le peregrinazioni italiche terminano qui: il Celotti, pare, vendette il codice ad Alexander Douglas decimo duca di Hamilton e agli Hamilton il codice rimase fino al dodicesimo rampollo della stirpe che mise all’asta l’intera collezione di famiglia. Le Goldmark prussiane fecero il resto: ne servì circa un milione e mezzo perché Friedrich Lippman, direttore del Kupferstichkabinett di Berlino, riuscisse ad assicurare la quasi totalità dei pezzi alla biblioteca dello Zweites Reich.
A Berlino i testi dell’Hamilton 390 furono affidati alle sapienti cure editoriali dello svizzero Adolf Tobler, migrato alla Friedrich-Wilhelms-Universität come Professor di Romanische Philologie: è un nome che tra gli studiosi della disciplina viene ancora oggi pronunciato con timore e venerazione. Tobler produsse una prodigiosa serie di contributi in cui all’edizione dei testi affiancava un commento linguistico che rimane esemplare e insostituibile. Giusta dunque la scelta di intitolare alla sua memoria lo splendido volume uscito di recente presso la Salerno Editrice e interamente dedicato al nostro manoscritto: Il manoscritto Saibante-Hamilton 390, edizione critica diretta da Maria Luisa Meneghetti (pp. CCXVI-616, € 148,00). Il libro è diviso in tre sezioni fondamentali: una prima parte introduttiva rende conto della avventurosa storia del manoscritto cui si è fatto cenno, ne offre una puntuale ricostruzione codicologica e una ricognizione degli aspetti linguistici, e ne propone una localizzazione; una seconda parte offre l’edizione critica di tutti i testi; una terza sezione ospita il commento puntuale a ciascuno di essi. Chiude tutto un prezioso indice analitico delle forme (o Formario). L’apparato iconografico è molto ricco, con utili tavole a colori e in bianco e nero. La schiera di collaboratori che hanno contribuito alla confezione dell’opera è troppo lunga da riportare, ma occorrerebbe menzionarli uno a uno per la passione e l’impegno profusi nell’impresa, impegno e passione che emergono con evidenza tra le righe dei loro saggi.
Come si diceva, i testi del Saibante-Hamilton 390 sono tutti di provenienza settentrionale. Il problema più spinoso sul quale si è esercitata a lungo la acribia di linguisti e filologi è la loro localizzazione puntuale, stante il fatto che alla redazione originaria si sovrappose certamente la patina linguistica del copista redattore del codice. In questi casi è sempre difficile determinare cosa spetti al testo originario e cosa alla mano che lo trascrisse in un secondo momento o ancora se l’ibridismo si debba addirittura alla sua stessa fase aurorale, spetti cioè non al copista ma addirittura all’autore. Qualche dato utile può emergere dalla analisi di quei testi del codice che esibiscono tratti geograficamente localizzabili con buona certezza e ascrivibili senz’altro all’originale. È il caso del Libro di Uguccione da Lodi o della cosiddetta Istoria dello Pseudo-Uguccione, centrati sulla Lombardia orientale, che (lo ha certificato Nello Bertoletti in un bel saggio uscito su “Medioevo Romanzo” nel 2018) esibiscono sporadiche ma inequivocabili desinenze sigmatiche nelle forme verbali di seconda persona (del tipo as per ‘hai’, es per ‘sei’, retorneràs per ‘ritornerai’ etc.) del tutto incompatibili con quell’area geografica e tipiche invece di una fascia che oscilla tra il veneziano e il veneto nordorientale (Treviso). Ciò farebbe appunto pensare a una trascrizione avvenuta all’interno di quel perimetro, tutt’altro che nuovo a iniziative culturali di rilievo. E però, se si passa ad analizzare proprio i Proverbia, che costituiscono forse il segmento attributivamente più conteso della silloge (vi si cimentò, oltre al Contini, anche Maria Corti), la situazione si ingarbuglia di nuovo perché proprio là dove ci aspetteremmo l’emergere di fenomeni come quelli appena descritti – anche a discapito del sostrato linguistico, per così dire, autoriale – questi non si manifestano (le desinenze di seconda persona dei Proverbia sono tutte, con un’unica eccezione, asigmatiche: di’ ‘dici’, pòi ‘puoi’, castige, trovi, trai e si potrebbe continuare). La lingua dei Proverbia insomma mostra, come ben sottolinea la nota di Roberto Tagliani, «un disperante assetto centrifugo, che sfugge a ogni tentativo di assegnazione a un’area dialettologicamente discreta».
A questo punto non resta che addentrarsi nella selva di apoftegmata e aneddoti sapienziali che nella loro primordiale rusticitas ci riportano a una compagine paraletteraria non priva di una qualche dignità. Dall’exemplum latino (un latino fortemente screziato di vernacolo) della formica avveduta che «non cessat portare granum in estate unde vivat in yeme», al volgarizzamento del Panfilus (puntuali testo e commento di Rossana E. Guglielmetti e Giuseppe Mascherpa), celebre commedia elegiaca in cui il giovane protagonista Panfilo riesce a possedere l’amata Galatea grazie a un inganno. Il lamento di lei si esprime – non banalmente e per il tramite di fonti diverse, perché latino e volgare non collimano – ricorrendo a similitudini da ars venandi: «Avis umana cauta videt laqueos: mai la veçada ausela sì se adà e vé lo laço avanti q’ela se lasse prendere, mai au non sapi così veder lo meu engano – dise Galatea» (ma la storia finirà bene, con un matrimonio riparatore). Ci troviamo evidentemente all’estrema periferia della letteratura e tuttavia, come si diceva in apertura, è proprio la connotazione linguistica ad aver determinato la fortuna di questi testi. La miniera inesauribile degli Harvard University Archives conserva, fra i molti tesori, una copia dattiloscritta e in pulito proprio del Panfilus: appartenne a Charles Hall Grandgent, il più grande professore di Romance Languages e mediolatinista che abbia calcato i verdi prati dell’Harvard Yard e forse il più grande dell’intera storia accademica degli Stati Uniti (la sua Introduction to Vulgar Latin del 1907 tiene ancora benissimo). Il dattiloscritto si accompagna a un fascicolo etichettato ‘History of italian language’. Grandgent dovette prepararli per un corso universitario o forse anche in vista di una futura pubblicazione. Suscita un po’ di commozione pensare che un secolo fa qualcuno al di là dell’oceano si appassionasse a scritture tanto peregrine.