La lira crolla, i turisti girano al largo e il deficit aumenta: l’economia turca ristagna e il governo guarda alla Casa Bianca sperando che il nuovo inquilino, Donald Trump, ammiratore del presidente-sultano Erdogan, dia una mano a risollevarla.

Negli ultimi tre mesi il valore della moneta turca non ha fatto che calare, un’emorragia che l’ha svalutata di oltre il 15% sul dollaro. A monte una serie di eventi imputabili all’esecutivo dell’Akp: il ruolo da incendiario giocato in Medio Oriente ha moltiplicato gli attacchi dei gruppi terroristici islamisti che hanno colpito la mano che li foraggiava, facendo scappare i turisti; la massiva campagna epurativa dopo il fallito golpe del 15 luglio ha allontanato gli investitori stranieri e portato alla chiusura o al commissariamento di 496 aziende, decapitate dei vertici accusati di legami con l’imam Gulen; l’abbattimento del jet Sukhoi russo – nonostante il riavvicinamento con Mosca – non è stato superato e molte delle sanzioni russe permangono.

Ma il governo non interviene. Sabato il premier Yildirim provava a rassicurare gli investitori definendo la crisi un problema mondiale e non locale, dimenticando che privatizzazioni e neoliberalismo selvaggio, caratteristiche del dominio dell’Akp, sono oggi pagati dalle classi medie e basse fiaccando i consumi.

A parlare sono i numeri: il livello dell’export è calato del 3% in un anno, meno 120 miliardi, mentre la compagnia di bandiera Turkish Airlines ha registrato una perdita di 463 milioni di dollari nei primi 9 mesi dell’anno e lasciato a terra 30 aerei per mancanza di passeggeri. Dati direttamente derivanti dall’incapacità ad attirare di nuovo il turismo straniero, crollato del 25,8% rispetto a ottobre 2015.

Una situazione drammatica che ad Ankara non nascondono di voler superare grazie al presidente eletto Usa Trump. Gli uomini d’affari turchi concordano: le relazioni economiche e commerciali si rafforzeranno come naturale effetto del favore che il tycoon riserverebbe alla Turchia di Erdogan.

Un ottimismo che si riversa anche sul piano politico: l’estradizione di Gulen, considerato la mente dietro il fallito putsch, si concretizzerà. Lo ha detto pochi giorni fa il vice premier Kurtulmus, basandosi – dicono fonti governative – sulle conversazioni già avute da Erdogan con il futuro presidente: «Ci aspettiamo che la nuova amministrazione o lo arresterà o lo estraderà in Turchia».

Se accadesse, gli Usa legittimerebbero le purghe tuttora in corso e che hanno raggiunto nei giorni scorsi picchi da dittatura sudamericana: il governo – scrive il quotidiano pro-governativo Yeni Safak – potrebbe revocare le adozioni di bambini a famiglie accusate di legami con il movimento Hizmet di Gulen. Il giornale parla di 5mila famiglie già sotto inchiesta da agosto insieme a quattro ong che si occupano di adozioni. La conferma è arrivata da un funzionario del Ministero della Famiglia: «Non sarebbe giusto per un bambino rimanere con una famiglia adottiva che ha legami con i terroristi».