Recentemente Ernesto Galli della Loggia («Quelle letture strumentali della Costituzione», 8 dicembre 2013) e Paolo Flores d’Arcais («La Costituzione e la signora Thatcher», 13 dicembre 2013) hanno polemizzato sul significato e la portata della nostra Costituzione. Vale la pena riflettere su questa polemica, non tanto per difendere le tesi di Flores, che si difende benissimo da solo, ma per analizzare le argomentazioni di Galli della Loggia, perché dimostrano chiaramente come la sedicente cultura moderata o conservatrice sia in realtà reazionaria.

Non a caso Galli della Loggia finisce il suo articolo affermando che alcuni principi della Costituzione sono semplicemente inattuabili e coloro (cattivi maestri?) che pretendono la loro attuazione vogliono solo condurre una battaglia politica di parte nascondendosi dietro la devozione alla legge suprema. Guarda caso questi principi inattuabili sono quelli che si riferiscono ai diritti sociali ed economici, che la Costituzione afferma accanto ai più tradizionali diritti personali e civili.

Dal tono delle argomentazioni si deduce che questi diritti non sono attuabili perché contravverrebbero supposte leggi inviolabili della economia. Ma sarebbe opportuno che non si scambiassero per leggi scientifiche quelli che sono solamente luoghi comuni del neo-liberismo volgare.

L’argomentazione che appare più esplicitamente infondata è quella relativa agli asili nido. L’art. 37 sancisce infatti che «le condizioni di lavoro devono assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione» ma secondo Galli della Loggia assicurare l’asilo indistintamente a tutti i bambini non può farsi sempre e comunque per via della spesa eventualmente insostenibile. Ma che vuol dire? Se Galli della Loggia, quando era studente, avesse letto uno dei manuali allora più diffusi, «L’Economics» di Paul Samuelson, si sarebbe ricordato che il primo capitolo contiene una discussione della frontiera delle possibilità produttive. Il problema economico è un problema di scelta di come utilizzare risorse scarse per diversi fini e quindi, nell’esempio di Samuelson, si tratta di decidere se produrre burro o cannoni, o per tornare alla nostra questione, per esempio, asili nido o caccia bombardieri.

La Costituzione non propone un principio anti-economico, ma stabilisce un indirizzo: se dobbiamo decidere come indirizzare la nostra spesa pubblica, la priorità va data agli asili nido rispetto ai caccia bombardieri. Nulla di inattuabile, ma l’affermazione di una priorità: la soddisfazione di un diritto sociale viene prima di considerazioni di altra natura nella scelta della allocazione delle risorse.

Un altro principio «inattuabile» riguarda l’articolo 36 che prescrive che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». A questo principio Galli della Loggia obietta che «a dispetto della Carta» si potrebbe pensare, «mettiamo, che il livello del salario debba essere legato alla produttività». Anche in questo caso, rifacendosi ad una proposizione apparentemente di buon senso economico, in realtà si dice una cosa priva di senso compiuto. Quegli economisti che sostengono questo principio si riferiscono alle variazioni, non ai livelli: affermano infatti che i salari dovrebbero variare proporzionalmente alla produttività del lavoro, ma nulla dicono a proposito del livello del salario e di quanta parte del prodotto orario del lavoro dovrebbe compensare il lavoro (il 55% come in Italia o il 58% come nella media dei paesi europei?). Ancora non si dice nulla se sia giusto o meno che un top manager debba avere una retribuzione di 400 volte superiore a quella media di un lavoratore della stessa impresa. In ogni caso il Pil reale per ora di lavoro è cresciuto in Italia dal 1991 al 2013 del 16,16%, mentre la retribuzione oraria a prezzi costanti è cresciuta del 3,69%. L’ernest (nel senso anglosassone del termine) Galli della Loggia dovrebbe protestare veementemente contro questo andamento e richiedere che ai lavoratori sia restituito la parte spettante dell’aumento, sia pure modesto quanto si vuole, di produttività.

Infine, in merito all’articolo 3 sul diritto al lavoro, Galli della Loggia nota come «la lotta alla disoccupazione debba necessariamente sottostare a certi vincoli» (ma di che vincoli si tratta? Di nuovo quelli della spesa pubblica?). Qui gli economisti ortodossi liberisti risponderebbero che il mercato tende spontaneamente alla piena occupazione, per cui se questa non è raggiunta è perché qualche ostacolo da rimuovere impedisce al mercato di funzionare. Viceversa altri economisti (tutti gli eterodossi, ma anche molti nel mainstream) sostengono che il mercato spontaneamente non tende alla piena occupazione e occorre che il governo attui politiche economiche attive che la favoriscano. Ad esempio recentemente l’ex segretario al tesoro di Clinton ed ex rettore di Harvard Larry Summers (tra l’altro nipote di Paul Samuelson, citato sopra) ha sostenuto che siamo in una fase di stagnazione di lungo periodo in cui il tasso di interesse compatibile con la piena occupazione sarebbe negativo. Di conseguenza o ci rassegniamo ad una serie di bolle speculative innescate dalla necessità di stimolare il tasso di crescita o una attiva politica economica di stimolo dell’occupazione è necessaria anche solo per evitare l’instabilità. In ogni caso nessuno pensa che la disoccupazione sia un male necessario o naturale, come i terremoti, che dovremmo sopportare rassegnati.

La posizione di Galli della Loggia è semplicemente ingiustificata dal punto di vista dell’economia ed è letteralmente reazionaria, nel senso che vuole negare alla radice tutta una categoria di diritti che la storia, il progresso civile e le lotte sociali hanno riconosciuto come fondamentali e per questo sono stati solennemente affermati nella nostra Costituzione, anche se la loro piena attuazione non è stata ancora raggiunta. Ma ovviamente Galli della Loggia la pensa come vuole. Ciò che è più preoccupante è che, sia pure in forme meno brutali e scoperte, ragionamenti simili sono piano piano entrati nella cultura che si vorrebbe progressista e di sinistra. In fondo bisogna tenere conto delle compatibilità e delle «leggi» dell’economia! (scambiando le lucciole dei luoghi comuni per le lanterne delle verità scientifiche). Che sia questa una delle ragioni della perdita dell’identità e della capacità di attrarre consenso e partecipazione della sinistra?