Latitante e parca nella scrittura poetica, prodiga nella traduzione, apparentemente imperforabile nelle avversità della vita, tutt’oggi Mary de Rachewiltz, nata a Bressanone nel 1925, non ha tempo da dedicare alla sua poesia, perché, nonostante la voglia di soddisfare un fermo tempus tacendi, è ancora impegnata sull’opera, l’archivio e la tutela del nome di Ezra Pound, suo padre.

Al pari di Hilda Doolittle, da lei proposta in italiano sin dal 1986, Mary è l’ultima della schiera della tribù modernista, sebbene non per lignaggio, ma perché ne ha il seme nel sangue, diversamente da altri suoi coetanei che quel seme lo hanno radicato nella cultura da loro ereditata. Lei invece, come più o meno recita la protasi all’Odissea, è una di quelli che nel suo personale «grande periplo» ha saputo ascoltare «le voci dei vecchi che molto avevano patito». Insomma, a quanto ella stessa afferma, Mary è un’ulisside, una figlia di Odisseo, nonostante la sua poesia sia una poesia diversa e le sue traduzioni siano traduzioni diverse da quelle dello stesso Pound e di Eliot e di tanti altri sodali del Modernismo. Il perno del suo lavoro resta Pound, e da Pound la strada si inoltra per lei, come in una catabasi, e quindi in un’anabasi, verso l’approdo più vagheggiato: l’ombra paradisiaca di Hilda Doolittle («Clarità d’Artemide»), la dantesca «donzella beata» che de Rachewiltz non ha mai potuto incontrare e della quale ha approfondito la tormentata vicenda di vita tramite la figlia Perdita, ospitata a Brunnenburg, nei pressi di Merano, dove abita da tempo.

Nella veste non di figlia, la sua opera inizia quindi con H. D., la quale si è sempre ritenuta «piccola» (come il suo nom de plume), sin da poco più che adolescente a Filadelfia, al tempo in cui incontrò Pound, il suo Hermes/Pigmalione, il suo vero «Amore» (a quanto pare), e Pound – racconta Mary – negli ultimi anni ne portava una fotografia dal sapore vittoriano nel portamonete. E sempre «piccola» si è sentita Mary rispetto alla cornice in cui ha vissuto, quella del gigante paterno e dell’indomita costanza della madre, Olga Rudge, almeno fino alla sua piena acquisizione del governo del ménage della vita di famiglia.

Presto, tuttavia, strane sincronie fra le due donne – Hilda e Mary – hanno fatto sì che de Rachewiltz s’impossessasse dello «Spirito» della poetessa Doolittle e abbia saputo tradurla a suo modo, ovvero in tonalità diverse. Lo mostra bene una lirica da Hermetic Definition (1972), tratta dal volumetto/strenna natalizia H. D., un omaggio «in memoriam» di lei, pubblicato da Scheiwiller nel 1986: «sorgi, sorgi, rianima, / O Spirto, quest’arca piccolina, questo piccolo corpo / questa identità separata; piccola; dei mortali, // uno solo rendi immortale uno solo si svegli, /per accendere il rogo, //sì che la Fenice, Venere, Venere, Mercurio / infiammino il mondo d’estasi, / con Amore che scorda i nostri difetti, / con Amore che redime la perdizione, / con Amore, Amore, Amore unico».

De Rachewiltz asciuga la già asciutta scrittura di Hilda e, a buona ragione, sa di non poter far nulla con le rime, ma sa come trasportarne gli echi in assonanze («dare-pace»), e ripetizioni («stanca-stanco», «credo-credo», «cuore-cuore») e allitterazioni. Quanto alla sua poesia, che corre in parallelo con le traduzioni, essa la offre a testate minori, quasi l’indiscrezione di famiglia (si ricordi Indiscretions del giovane Pound) andasse ancora perpetuata con discrezione, ovvero mai, diciamo, in prima pagina. Infatti, le sue poesie bisogna scovarle in cassetti segreti, o presso piccoli editori di qualità, per poterle leggere, che siano scritte in perfetto inglese o in perfetto italiano.

Pertanto, proviamo a incominciare dall’inizio, ovvero da Di riflesso (Scheiwiller 1985 e 1995), di cui ora si possono leggere alcune liriche in L’economia amorosa (La costellazione del Cigno, postfazione di Giancarlo Pontiggia, pp. 80, € 14,00), una selezione delle sue poesie in italiano pubblicata da Coup d’Idée-Edizioni d’Arte di Enrica P. Dorna (c’è una creazione di Giulio Paolini in copertina), che mette insieme una scelta dall’introvabile Di riflesso e Polittico (Scheiwiller 1996). Quel che Mary qui ci offre è un métissage di infanzia e adolescenza, pratica di traduzione del testo paterno e rimembranze di Gais, in Val Pusteria, dove lei è cresciuta e (si fa per dire) ha recitato la parte della «pastora», colei che bada alle pecore e alla loro lana, affinché – autentica com’è – quella lana buona (non mista ad altre scorie), vada al mercato. Si veda di riflesso il Canto 45.

Un’Economia amorosa, in tutti i sensi, che Mary ha sempre praticato e ricevuto dal padre, rintracciabile in questo volumetto nel quale troviamo, appunto, La pastora, una variante di Abitudine (da Processo in verso, Scheiwiller 1973), ma in tutt’altro spirito verbale: «Sono stata pastora / e pratica di monti / gole grotte e spalti / dove per la calura / o tempesta improvvisa / si accalcano le greggi. / La sapienza del sangue / sarà via di ritorno / a quel fosso quadrato / all’altare di pietra / sotto la grande roccia / detta Monte Oliveto / che non spiega il mistero». Echi e misteri in questa lirica, infatti, ci sono, e c’è pure qualche ammiccante assonanza, almeno una, la più misteriosa. È necessario decriptare, ma, di certo, questi senhal della Pastora sono rivolti al padre della «pastorella dei suini» così connotata nel Canto 84, con la quale Pound parla oltre il filo spinato del campo di detenzione di Pisa, un episodio che Mary ricorda nell’autobiografia Discrezioni (Rusconi Editore 1973).

Nella sua poesia Mary pensa al padre e ai Cantos che va traducendo per Mondadori o Scheiwiller. Lo decripta, lo interpreta a sua misura, come nelle monodie di «due allodole in contrappunto» (Canto 74). Dovrà uscire da quell’incanto, cosa che fa passando alla lingua inglese con quattro piccoli libri, pubblicati, inutile aggiungerlo, presso piccoli editori di qualità.

Basta solo sfogliare L’economia amorosa per riconoscere che ciò che resta dell’insegnamento paterno è il metodo, il segno dell’ammiccamento, la deissi per un lettore enciclopedico, ma il discorso che de Rachewiltz ci mette sul banchetto è tutt’altro. Per esempio, in Iceberg: «La fragilità del vetro / sospende quale getto d’acqua / il ghiaccio, un bianco marmo / di Lasa e pare pietra astrale / che vola sopra al Carso / a memoria di chi invano / è caduto come foglia / per difendere i confini / che nessuna stirpe vuole. // Non saranno gli imperi / né la fissione a freddo / a fermare l’uomo / che attraversa deserti / e ghiacciai per congiungersi / con la luce radiale». Il suono c’è, e anche il senso riconoscibile in cultura ‘tirolese’. Eppure, in quella «luce radiale» (che rima in eco con «astrale») la lirica va oltre i problemi dei «confini» e degli «imperi».
Difficile a questo punto non citare anche Il naufrago. Eccolo: «Il naufrago si mise il remo in spalla / (…) / giunse fra gente ignara del mare / che gli strappò il remo / per offrire il grano al vaglio del vento. A lui restò la profezia / e una voce che disse: / Tu non fosti creato per servire / ma per portare la luce sul monte / alla sorgente dell’acqua lustrale. / Poi discese dal cielo uno spirito / fiammante e avvolse il poeta».

Non è poi neanche difficile individuare chi sia il poeta: Odisseo: in «parabola» evangelica. De Rachewiltz parla del «poeta», cioè di tutti i poeti e della loro funzione nel mondo, che è quella di portare «luce», ma bisognerebbe portarla secondo gli insegnamenti del padre poeta: gettare il «seme» a chi vuole intendere o vedere o ascoltare (c’è scritto nei Vangeli). Questo è il «Make It New» di Mary de Rachewiltz, il suo rinnovo di quel «seme» da lei raccolto. Questo è il suo bagaglio di clerica vagans, ovvero di una che ha ascoltato «le voci dei vecchi che molto hanno patito» e sa pertanto essere poeta in proprio, e mette in versi ciò che lei ama mettere in versi. Il resto è scoria.