Di Kafka, Adorno disse che «la falsa fama, la nefasta variante di quell’oblio che Kafka auspicava per sé con estrema serietà costringe all’insistenza di fronte all’enigma. Poco di ciò che è stato scritto su di lui conta; il più è esistenzialismo». A Umberto Eco è toccato, probabilmente, un destino postumo specularmente opposto a quello che Adorno assegnò a Kafka. La cifra di Kafka è l’enigma, quella di Eco è il suo scioglimento, l’interpretazione che rende l’oscuro trasparente, che alla dizione esoterica preferisce la geometria dell’argomentazione. Se la fama dell’autore del Processo si lega all’immagine falsificante che ne hanno dato i suoi primi eredi, quella di Eco fortunatamente non corre questo pericolo perché chi ne discute l’eredità scientifica ha dinanzi a sé un terreno illuminato dalla luce piena del giorno, da una Aufklärung votata all’ottimismo della ragione, sideralmente distante dalle pratiche misteriche e dal culto dell’inesprimibile: dopo Eco, è difficile immaginare strade diverse da quelle da lui stesso tracciate, e chi si occupa della sua ricezione e ne discute la rilevanza deve fare i conti con le sue rigorose planimetrie.
Eco è morto nel febbraio del 2016. L’anno successivo uscì nella prestigiosa collana «The Library of Living Philosophers» The Philosophy of Umberto Eco, un volume di oltre novecento pagine curato da Sara G. Beardsworth e Randall E. Auxier: ora in versione italiana (La filosofia di Umberto Eco, La nave di Teseo «i Fari», pp. XXVII-875, euro 29,00) a cura di Anna Maria Lorusso, che nel bel saggio introduttivo offre una chiave per capire anzitutto che cosa sia stata la «filosofia per Umberto Eco».
Questa silloge di interventi era in gestazione quando Eco era ancora in vita, ci sono le sue repliche ad alcuni di essi. Un volume che non solo per la mole ma anche per l’organizzazione interna si potrebbe definire ‘enciclopedico’, se non fosse che il termine ‘enciclopedia’ assume nel pensiero di Eco, soprattutto a partire dagli anni settanta, un significato particolare, a cui egli ha associato la bella immagine della «libreria di tutte le librerie». In un’accurata ricostruzione di questa nozione centrale del suo pensiero, Patrizia Violi ne spiega bene il carattere di «infinito labirinto» di conoscenze, la cui «struttura aperta e dinamica» impedisce una rappresentazione esaustiva. Va quindi detto subito, per mitigare le aspettative ma anche per non scoraggiare i lettori, che l’opera in questione non ha la latitudine che Eco assegnava alla nozione di enciclopedia. Non siamo cioè in presenza di una libreria al quadrato dell’Eco-pensiero, ma di una ricognizione, peraltro assai utile, dei fondamenti del suo ragionare filosofico osservato da una doppia prospettiva, sincronica e diacronica.
Alla diacronia, cioè alla storia del suo pensiero, provvede Eco stesso grazie alla pubblicazione – finora inedita in italiano – della sua Autobiografia intellettuale con cui si apre il poderoso volume. Questa ‘confessione’, che a differenza degli illustri antecedenti (Agostino, Rousseau) si concede il piacere dell’ironia e della leggerezza proprie di chi si prende sul serio non prendendosi sul serio, è certamente il piatto forte del libro. Eco parla di sé ma con distacco, si osserva nello specchio dei problemi che tratta e che hanno segnato il suo percorso intellettuale, a cominciare dalla emancipazione dai maestri: primo fra tutti il filosofo Luigi Pareyson, le cui «lezioni erano affascinanti (…) di una pedanteria lucida e brillante». Si potrebbe quasi dire che in questo ossimoro l’allievo abbia visto una lezione di metodo da fare propria, ma anche da superare nella direzione di un sapere aperto, costantemente interrogabile e revocabile.
Sono interessanti le pagine sulla sua «crisi religiosa», che non ha costituito per Eco un percorso classicamente indirizzato verso la laicità del pensiero ma paradossalmente un ritorno all’indietro, a un Medioevo attraversato dalle domande intorno alla verità e alla bellezza e iscritto nel razionalismo aristotelico di Tommaso d’Aquino. D’altra parte, il gusto di osservare i problemi filosofici non solo come oggetti di un procedimento asetticamente analitico ma come presenze nel tempo storico, è uno dei requisiti fondamentali su cui l’Autobiografia insiste.
Alla tradizione angloamericana, a cui importa soltanto «la verità o falsità di certe idee» e che quindi vede con sospetto gli storici della filosofia, Eco risponde dicendo di essersi dedicato alla ricerca storica proprio per capire i problemi dell’estetica contemporanea.
Se c’è un dato costante che emerge dalla sua memoria autobiografica e che viene ripreso in molti degli interventi sul suo pensiero è la visione multiprospettica che si sottrae alla tirannia della logica binaria, quella che oppone appunto la storia all’analisi, la razionalità dura e pura della spiegazione alla logica dell’interpretazione che è, nelle intenzioni di Eco, sempre ‘negoziale’. Come spiega bene David Boersema nel suo saggio sull’epistemologia, «la negoziazione semiotica è fondamentale per la visione di Eco, anzi la definisce». Un aspetto ripreso da Piero Polidoro che dedica il suo intervento alla «ragionevolezza» come marca identificativa di un pensiero che si è sempre rifiutato di operare distinzioni nette tra teoria della conoscenza, teoria dell’interpretazione e teoria della cultura. Anzi, nell’Eco-pensiero questi tre momenti sono intimamente legati, e solo da una visione contestuale, che ne valorizzi le implicanze reciproche, può prendere corpo una conoscenza adeguata al suo oggetto. Un oggetto che per lui è sempre in questo mondo, non in una idealità trascendente, o qualcosa che viene spogliato della sua complessità e contraddittorietà nell’autoreferenzialità di un metodo.
Nell’accurata mappatura del suo pensiero filosofico qui proposta, gli studi medievali appaiono – lo chiarisce bene il saggio di John Marenbon – come prodromici della successiva ricerca intorno a semiotica, cognizione, epistemologia e filosofia del linguaggio. E non solo perché sono biograficamente anteriori, ma perché nel pensiero medievale Eco trova elementi fondamentali che poi ritorneranno nella sua ricerca intorno al senso e all’interpretazione. D’altra parte, il suo Medioevo non è certo quello mistico di Meister Eckhart ma quello aristotelico e razionalista di Tommaso d’Aquino. Così, ad esempio, ha radici medioevali l’affermazione secondo cui la «condizione di un segno non è … solo quella della sostituzione (aliquid stat pro aliquo) ma quella che vi sia una possibile interpretazione». Il codice perde quindi il suo carattere di regola generale per diventare sistema di corrispondenze non più necessarie ma possibili, valido alla luce di saperi determinati storicamente e in continua evoluzione.
Alla fine del volume compare una sezione dedicata alla filosofia nei romanzi, dove si cerca di ricondurre alle premesse epistemiche del suo pensiero anche le diverse prove narrative dell’autore del Nome della rosa. Qui può nascere il sospetto di un eccesso di zelo da parte dei pur bravissimi esegeti e viene spontaneo chiedersi se davvero l’invenzione narrativa sia collocabile nel quadro unitario del pensiero. Non c’è dubbio che le griglie interpretative e gli schemi delle azioni dei personaggi tradiscano il sapere narratologico e strutturale dell’autore, ma la disinvoltura nell’invenzione storica mi pare più una prerogativa del giullare medievale (e forse dei narratori di ogni tempo) piuttosto che l’espressione di una narrativa che «partecipa pienamente alla crisi della filosofia della storia idealista», come si legge nell’ampio saggio di Norma Bouchard: la quale del resto rileva (seguendo Linda Hutcheon) che i romanzi di Eco «sono esempi non di roman à thèse ma di roman à hypothèse». E non è un caso che Eco, nella sua breve réplique , sottolinei proprio questo passo che gli riconosce la libertà della inventio contro le costrizioni della teoria.
L’«autobiografia intellettuale» si chiude con una riflessione disarmante che non richiede di essere commentata: «La risata è un’esperienza tipicamente umana. Pensiamo che questo sia collegato al fatto che siamo gli unici animali che sanno che devono morire. Gli altri animali possono capirlo solo nel momento in cui muoiono, ma non sono in grado di articolare qualcosa come l’affermazione “Siamo tutti mortali”. Gli umani invece sono in grado di farlo, e probabilmente per questo ci sono religioni e rituali. Ma il vero punto è che, dal momento che sappiamo che il nostro destino è la morte, ridiamo. Ridere è il modo radicalmente umano di reagire al senso umano della morte. In questo modo il comico diventa un’occasione per resistere alle tragedie, limitare i nostri desideri, combattere il fanatismo. Il comico (sto citando indirettamente Baudelaire) getta una diabolica ombra di sospetto su ogni proclama di dogmatica verità».
La data che chiude l’Autobiografia è «ottobre 2015». Eco si è spento il 19 febbraio 2016.