«Se ci fosse il partito di Draghi, questo sarebbe il suo congresso fondativo e questi 1200 industriali in grisaglia, che si spellano le mani a ogni suo passaggio, i suoi delegati». Non è un grido d’allarme. Al contrario la frase è stata scritta con soddisfatto compiacimento in apertura dell’articolo di commento all’Assemblea di Confindustria sul portale del quotidiano italiano che più si è distinto nell’apologetica draghiana. E purtroppo corrisponde a verità.

In effetti il 23 settembre, al Palazzetto dello sport di Roma, è nato il «partito unico dei padroni» intorno al suo leader massimo e indiscutibile, l’ex banchiere di Stato Mario Draghi. E nello stesso momento, con la proclamazione del medesimo a suo capo carismatico e titolare naturale di un Esecutivo sintetizzato nella sua persona, è stata preannunciata la nuova forma di governo definibile come «Premierato Assoluto» (nulla di più lontano dal dettato costituzionale).

L’evento è stato accolto dal coro bulgaro dei media – tutti quelli mainstream, TG di stato in testa -, ormai senza pudore nell’ostentare un culto della personalità degno di altri tempi. E accanto a loro la politica, anche qui senza quasi eccezioni, a invocare lunga vita al premierato dorato, se fosse possibile vita eterna, come nelle monarchie…

Se valessero ancora le «regole auree» fissate dalla politologia novecentesca – mica quella marxista o socialdemocratica, ma la politologia liberaldemocratica, di orientamento comportamentista, egemone nell’area anglosassone – si dovrebbe dire che siamo fuori dal quadro democratico.

In quel paradigma, infatti, la cifra di una democrazia sana, o comunque accettabile, stava nella netta separazione (in una effettiva «divisione del lavoro», si diceva) tra i sottosistemi fondamentali: quello Politico, quello Economico e quello Culturale (ovvero Parlamento e Governo, Imprese e Banche, Informazione e Media). Quando uno di questi travalica la propria sfera e prende il controllo degli altri, si esce dai limiti dalla forma democratica: se la Politica pretende di annettersi Economia e Cultura si ha il «totalitarismo», se l’Economia si compra Politica e Media si ha un abnorme «patrimonialismo», se la Cultura domina sugli altri due si ha una “teocrazia”.

Il 23 settembre abbiamo avuto l’immagine plastica di questo cortocircuito malsano, che stava nell’aria, si percepiva da tempo, ma che mai era stato così materialmente visibile ed evidente, nemmeno nel ciclo berlusconiano.

Non stupiscono in questo i 1200 imprenditori che facevano la Ola nel parterre del Palazzetto dello Sport (anche il genius loci qui conta): erano lì a incassare le cedole del loro investimento, fatto già nel 2018, immediatamente dopo i risultati delle elezioni politiche in teoria più destabilizzanti del secolo (nuovo), quando appunto la bandiera di Mario Draghi fu alzata contro l’esito delle urne.

Il rito ricordava i Te Deum cantati nelle cattedrali di mezza Europa dopo il congresso di Vienna, con i vecchi sovrani e le loro aristocrazie di corte a celebrare l’avvenuta Restaurazione. E nemmeno (anche se avremmo dovuto esserci preparati) il ruere in servitium quasi unanime del coro mediatico: si tratta appunto di organi di stampa quasi tutti proprietà di gruppi industriali e finanziari.

Forse colpisce un po’ di più la velocità con cui i partiti, nella stragrande maggioranza, si sono affrettati a consumare la propria (terminale) cessione di sovranità, e a certificare così la propria crisi strutturale. Perché è fin troppo evidente – anche un bambino lo capirebbe – che all’ombra di questo Premierato Assoluto, con un Capo onnidecidente e il resto che, come l’intendenza napoleonica, deve seguire, tutto ciò che sta al piano terra della cuspide del potere, in primo luogo il “sistema dei partiti”, avvizzisce e marcisce.

Il fenomeno è evidente nelle traversie dei 5 Stelle, movimento sempre più evidentemente privo di radicamento territoriale. O nelle recenti convulsioni della Lega, dilaniata dalla sua Bestia. Ma se ne può cogliere un segno, di questo avvizzimento, anche nella prima esternazione del Segretario del PD dopo l’assemblea confindustriale romana, quando ha detto che il suo vuol essere il partito degli imprenditori e dei lavoratori (proprio così, letteralmente: «il partito dell’Impresa e del Lavoro»).

Ora Enrico Letta è uomo troppo colto in fatto di culture politiche per non aver letto Alfredo Rocco o Ugo Spirito e ignorare che quella è la base del corporativismo d’infausta memoria. Quella voce “dal sen fuggita” deve essere frutto di un appannamento collettivo grave, che tuttavia getta una luce inquietante sull’altro nodo gordiano emerso da quell’Assemblea. La questione del Patto Sociale. Rimasto evidentemente l’ultimo strumento nella mani delle élites per immaginare una qualche rapporto tra le Istituzioni e il Sociale, dopo l’evaporazione del canale partitico.

E infatti è stato il secondo coniglio tirato fuori dal cilindro da Draghi, sia per tracciare un percorso oltre l’emergenza sanitaria, sia anche, forse, per attenuare l’immagine di un suo eccessivo schiacciamento sulla parte confindustriale.

Ma sarà davvero questo? Un patto tra pari per regolare le relazioni Capitale/Lavoro nel nuovo contesto? Credo che sia lecito dubitarne fortemente, data l’asimmetria drammatica tra le due parti, soprattutto se una può contare sull’appoggio o l’identificazione col Governo.

E d’altra parte il clima che si respira «in alto», dove persino la formula moderata del «salario minimo» evoca reazioni isteriche, non invoglia all’ottimismo. Più probabilmente quello a cui si mira è un «patto leonino» in cui un movimento sindacale timido verrebbe chiamato a far da palo a una «politica dei redditi» punitiva per il lavoro.

Ma la partita è aperta. E bisognerà giocarsela, soprattutto «in basso».