«Se ne parla dai tempi della commissione Bozzi, tutti dicono che bisogna superare questo procedimento legislativo barocco e poi non si fa mai niente». È l’esordio di Matteo Renzi nella direzione Pd dedicata alla proposta di riforma del bicameralismo; il piglio è quello pragmatico di sempre. E ha ragione. Di riformare il bicameralismo paritario italiano si parla almeno dalla fine degli anni Ottanta (commissione Bozzi), anzi da molto da prima. Mai però, né la commissione Bozzi, né quella De Mita-Iotti, né la Bicamerale di D’Alema, e neppure la legge costituzionale sulla Devolution di Calderoli né la più recente bozza Vizzini, avevano immaginato un senato non eletto direttamente dai cittadini. Per trovare un precedente in sintonia con la proposta di Renzi bisogna ricordarsi del «Comitato Speroni», nel senso del dimenticato ministro leghista delle riforme del primo governo Berlusconi (1994).

L’idea di promuovere senatori tutti i sindaci delle città capoluogo, però, è un inedito assoluto. Che ha fatto subito imbizzarrire i presidenti di Regione, non piace a buona parte del Pd (a cominciare, naturalmente, dai senatori) e pare di difficile praticabilità, oltre che costituzionalità. «Discutiamone, non è una proposta chiusa», dice Renzi prima e dopo aver sentito le critiche in direzione, anche di un po’ di renziani. Ma non smentisce l’intenzione di trasformare il progetto in un disegno di legge da qui a dieci giorni.

La proposta
Centocinquanta componenti di cui 108 sindaci, 21 presidenti di Regione e 21 personalità nominate direttamente dal presidente della Repubblica, ma «a tempo» (non è chiaro quanto, visto che un senato così fatto si rinnova senza sciogliersi mai). Gli amministratori diventerebbero legislatori per le leggi costituzionali e per quelle che riguardano le politiche europee. E persino «per le leggi legate alle funzioni fondamentali delle regioni e degli enti locali». Cioè ancora una distinzione per materie che, dai tempi della riforma del Titolo V (che infatti si vuole correggere, poco coerentemente), ha creato solo confusione. Questo senato dei cooptati conserverebbe il potere di eleggere il presidente della Repubblica e tutte le istituzioni di garanzia. Non darebbe però la fiducia al governo, sta qui la novità. Nel rispetto dell’idea che la sovranità popolare si sostanzia nella scelta del governo, e dunque una camera che non dà la fiducia non dev’essere votata dal popolo. La stessa idea, in fondo, della governabilità a discapito della rappresentanza che sta alla base della proposta di riforma elettorale (idea però smentita dalla sentenza della Consulta che si dovrebbe rispettare). Non per niente Renzi lega il cammino di questa riforma del bicameralismo a quello della legge elettorale: «Una sola non sarebbe una vittoria».

Ma la legge elettorale è ancora esposta ai rischi dei franchi tiratori, se non nel suo complesso – vista la decisione della minoranza Pd di mettere la sordina alle critiche – almeno in qualche passaggio sugli emendamenti. Come quello che lega l’entrata in vigore dell’Italicum appunto all’approvazione del sostanziale monocameralismo, a questa riforma del senato. Come dire alle calende greche, visti i tempi indispensabili per il procedimento di revisione costituzionale regolato dall’articolo 138 della Carta. E vale la pena di notare come Renzi si dimostri molto meno «aperto» di Letta, che quando immaginava riforme costituzionali aggiungeva sempre che andava garantito comunque il referendum confermativo finale. No, Renzi cerca di tenersi stretto l’accordo con Forza Italia per agguantare il voto dei due terzi delle camere – quorum necessario a impedire la consultazione degli elettori.

Ma le perplessità per questo senato dei sindaci – «l’Italia l’hanno fatta le città» – si fanno sentire anche nel Pd. Non sono renziani né Epifani né D’Attore che insistono sulla contestualità delle due riforme – elettorale e del senato – chiarendo al segretario che non può illudersi di correre troppo, né in un caso né nell’altro. È un renziano tendenza Veltroni il senatore Tonini, che al senato dei sindaci oppone il modello del Bundesrat tedesco, prefigurando al contrario «un pasticcio colossale». Tonini fa attenzione a non calcare il concetto e parla di «dissenso temperato», Renzi gli risponde dandogli del democristiano: «È un dissenso radicale». Infine il capogruppo Zanda non può nascondere più di troppo il dissenso dei senatori Pd. «C’è un grande consenso sul fatto che il bicameralismo paritario vada superato», garantisce. Il resto «sono argomenti di grandissima complessità». A Renzi toccherà insistere ancora molto, a partire da mercoledì prossimo quando affronterà di nuovo il gruppo di palazzo Madama. Dal quale vorrebbe presentarsi con una proposta di legge già scritta, e da sottoscrivere.