Selezionato al Milano Film Festival Our City di Maria Tarantino è la visione cosmopolita della nuova Bruxelles, la città in cui vive da parecchi anni. Un luogo che il film attraversa in più direzioni, con un sottotesto assai spettacolare fatto di riferimenti anche cinematografici e soprattutto di incontri consolidati nel tempo.

Africani, greci, turchi, iraniani e portoghesi hanno il loro posto nella società e altre centinaia di immigrati fanno la fila quotidianamente negli uffici del comune per avere i documenti.

La regista che ha girato Dritto rovescio (2009) nella Casa circondariale di Saluzzo e Kubita, un jeu de société (2011) sulle torture ai prigionieri del Burundi, in questo nuovo film mostra il periodo appena precedente allo spartimento delle quote di immigrati spesso rifiutate dai paese.

“Sono a contatto con un mondo militante, dice, vedo filmati dei pestaggi in Macedonia, le foto dell’Ungheria, i racconti che fanno alcuni nostri amici che vengono dall’Iraq, in aereo fino in Turchia, poi in gommone in Grecia e a piedi in Austria. In Austria, hanno detto, ’non sono stati felici di vederci’. Ora è il momento da cogliere perché poi dall’Ungheria non si passerà più. Il tipo di filo spinato che hanno messo è il soggetto di LDevil’s Rope (La corda del diavolo) di Sophie Bruneau, un documentario belga che rintraccia le origini del filo spinato rasoio inventato da un americano utilizzato al confine con il Messico a imitazione dell’amo dei pesci, che se cerchi di strapparlo viene via anche la carne. Non si capisce che queste persone che arrivano non sono un problema una risorsa. Invece in Belgio la gente sta qui a marcire, li si obbliga a raccontare fandonie, psicodrammi perché o sei un perseguitato politico o non esisti, sei un parassita economico, non si capisce che ci sono paesi in cui la vita è diventata impossibile, con esplosioni continue e l’impossibilità di andare in qualunque altro paese arabo perché non ti danno il passaporto”.

Nel tuo film l’immigrazione sembra ancora sotto controllo

Nel 2012 non è che ci fosse meno crisi di adesso, le code al commissariato ci sono sempre state. Il Belgio è stato storicamente un paese molto accogliente e poi si è irrigidito un po’ come gli altri paesi. Poi ci sono state le crisi degli scioperi della fame per ottenere la «charte orange» che tutela chi ha condizioni di salute deteriorate. Così fino a tre anni fa occupavano le chiese e smettevano di mangiare e di bere rischiando di morire, fino a quando il ministro di turno decideva di regolamentarli per non fare brutta figura di fronte all’opinione pubblica. Ora anche se fanno lo sciopero della fame la «charte orange» non la danno più. Su questo è stato fatto anche un documentario, 9ter (Comma nove) di Céline Darmayan e Origan Cannella.

Chi è il tassista che nel film legge poesie?

È un poeta iraniano arrivato a Bruxelles a diciotto anni, dopo la rivoluzione. È sufi, cresciuto in una scuola di stampo giapponese con le arti marziali, la meditazione. Qui a Bruxelles ha fatto tanti lavori e, persona che non rientra in schemi precisi, anche il tassista. Per me è una specie di Caronte del film. Conosco la cultura iraniana, la comunità, il cinema iraniano, avevo in mente il tassista poeta che parla di Teheran e fa vedere Bruxelles. La mia idea iniziale era far vedere il contrasto tra quello che vedi e quello che ascolti dalle parole di una persona, perché questi personaggi sono proiettori di immagini di un altrove, è come se Bruxelles fosse una scatola un po’ grigia e brutta che si illumina di un altrove che questi immigrati portano con sé. Alla stazione centrale di Bruxelles dove si riuniscono i tassisti iraniani abbiamo chiesto se tra loro ce n’era uno che fosse poeta, scrittore e tutti ci hanno indicato lui ed è nata un’amicizia

Nei film iraniani il tassista è una figura emblematica anche prima di «Taxi Teheran» di Jafar Panahi, tra gli ultimi «Melbourne» di Nima Javidi», Gusseha di Rakshan Banietemad

Il tassista è anche un confessore, in questo caso è l’unico che fa un commento, non racconta semplicemente la sua storia, ma lo fa con le parole della sua poesia e quando dice che la città sta cambiando, si sta indurendo, sta diventando solo vetro e cemento, una città di uffici.

Anche gli operai sui tralicci ricordano i film americano dellla depressione

Come nel famoso poster. Quella che costruiscono sarà la nuova sede del Consiglio europeo. È come una Babele, ci lavorano operai di tutte le nazionalità. Negli uffici si troveranno impiegati e funzionari di tutte le nazionalità, così come a costruirli dalle fondamenta, anche se non le stesse. C’è l’équipe turca e stranamente dopo le sei arrivano i bulgari, forse un po’ in nero. In questo cantiere ci abbiamo passato tre anni. Un po’ come in Stalker, nella Zona, aprivi una porta dove c’era una scala e il giorno dopo non la trovavi più, era in continua trasformazione, incastrata tra la metropolitana e un palazzo degli anni venti. Ognuno aveva la sua specialità. C’erano i saldatori che come star arrivavano di notte a fare le saldature speciali, erano portoghesi. I portoghesi sono figli di contadini: quando il Portogallo è entrato in Europa fare il contadino è diventato un lavoro da fame, così i loro figli sono diventati transumanti della costruzione, si potranno comprare una casa al contrario dei loro genitori, ma non riescono mai a vedere la famiglia. Negli altri cantieri si lavora con le macchine, ma in questo caso tutto deve essere fatto a mano per le condizioni particolari di questo posto. All’inizio io avevo pensato di farli cantare le canzoni dei loro paesi, ma quando ho visto i rischi che corrono, i pesi che trasportano a spalla, ho rinunciato. Sono loro che mi hanno proposto un giorno di fare dopo il lavoro delle riprese dall’alto con la gru. Quando siamo saliti ho chiesto di cantare. In alto, un po’ fuori dal mondo si sono abbandonati alla nostalgia.

La tua idea iniziale era realizzare una specie di musical a Bruxelles, come in «Sell Out» di Joon-han Yeo, il film dalla Malaysia della Settimana della Critica 2009.

Ci sono momenti musicali, il ballo delle debuttanti, le diverse lingue che si incrociano. Per me è sempre stato un documentario musicale, ma invece di mettere le persone a cantare sui tetti, ho trovato nel reale quello che corrispondeva all’idea.

Si forma una planimetria della città, si esplorano varie zone.

Ho cercato di attraversare la città sia dal basso che dall’alto, dai tetti al sottosuolo, attraversare le classi sociali, i paesi dalla Russia al Vietnam (manca un po’ l’America Latina) e anche le generazioni. Ho cercato di proporre un inizio di cosmogonia. Mancano un po’ i belgi. Ci sono i bambini che giocano nella neve che da grandi diventeranno gli impiegati dietro gli sportelli. È una cosa che solleva fantasmi, i belgi si chiedono: dove sono i belgi? a un italiano non verrebbe in mente. I ragazzi che discutono a scuola sono belgi, ma qui si fanno distinzioni tra loro e gli autoctoni, come dicono i fiamminghi. Lostudente ’africano dice: nessuno pensa che io sia belga, ma che sono africano. Ci sono volutamente cose non spiegate, sottofondi in cui cascare, è pieno di questi giochi. Gli stessi russi parlano in russo ma parlano perfettamente francese, sono belgi. E l’immobiliare che parla francese è il principe Gagarin.

Della famiglia del cosmonauta?

Sì, ma lui non vuole sentirlo dire, lo chiama «lo sporco comunista», lui è uno della Russia bianca. Ha scritto un libro di mille pagine sulla storia della sua dinastia che comprende zar e ministri, un uomo d’altri tempi. Ogni storia del film è un vaso di Pandora.