Il panel di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) si è finalmente espresso sull’eticità di somministrare cure sperimentali – vale a dire mai testate sull’uomo o testate solo su alcune specie di primati – alle comunità dei Paesi dell’Africa occidentale devastate dal diffondersi di un’epidemia di ebola senza precedenti. Tali terapie richiedono, dicono gli esperti, il «consenso informato, libertà di scelta, riservatezza, rispetto della persona, tutela della dignità e coinvolgimento della comunità». E qui si apre un’altra storia. Sì, perché se a tenere banco in questi giorni soprattutto sulle colonne e gli editoriali dei giornali occidentali è l’allarme di salute pubblica internazionale lanciato dall’Oms e la querelle etica su chi dare la priorità nella fornitura di questi sieri speciali vista le modiche quantità a disposizione, a margine resta un’altra questione: la disinformazione e la superstizione che attanagliano le comunità più colpite.

A questo si aggiunga l’ inadeguatezza delle strutture sanitarie locali di questi Paesi, la mancanza di personale medico, la criminalizzazione e la stigmatizzazione di chi ha contratto l’infezione. Fattori che rischiano di diventare la miscela più pericolosa e il lasciapassare più naturale alla diffusione del virus.

A lanciare l’allarme in questo caso sono le associazioni umanitarie attive soprattutto nei villaggi rurali come Unicef e Action Aid. «Ci sono comunità che non credono che Ebola sia letale ma lo ritengono una strategia per ridurre la percentuale delle comunità tribali Mende, così che abbiano meno peso politico. Altre comunità credono che il governo abbia vietato il contatto con scimmie e primati non per emergenza sanitaria, ma perché ha messo in atto politiche di conservazione delle specie animali».

A sostenerlo è Peter Abdulai, operatore del team di ActionAid attivo in Sierra Leone, nel sud del Paese, nelle regioni di Kono e Bo, con una campagna di sensibilizzazione e informazione sulla trasmissione del virus attraverso la diffusione di flyer, messaggi radio, visite porta a porta e anche rappresentazioni teatrali villaggio per villaggio.
«Molte persone non si stanno sottoponendo alle cure necessarie perché sono spaventate. Purtroppo non si fidano del sistema sanitario nazionale e molte delle informazioni che ricevono sono in una lingua che non conoscono.

Per questo ActionAid sta lavorando con le organizzazioni locali e i volontari per tradurre, nei dialetti locali, sia le raccomandazioni dell’OMS che del governo. Purtroppo, il nostro staff riferisce che ci sono molte persone, che pur avendo contratto il virus, non cercano cure e assistenza sanitaria per paura di essere stigmatizzate o perché non conoscono quanto letale sia Ebola», spiega Mohamed Sillah, direttore di ActionAid in Sierra Leone.

Per Guido Borghese, dell’Ufficio regionale Unicef dell’Africa Centrale e Occidentale, «la maggior parte delle persone in questa parte del mondo non hanno mai sentito parlare di Ebola prima d’ora. In questi ambienti, paure infondate e false credenze si diffondono ampiamente e con velocità. Oggi più che mai, è fondamentale che le famiglie conoscano il modo corretto per proteggersi, e che si prevengano pericolosi equivoci. La nostra è una corsa contro il tempo e con ogni mezzo disponibile, per impedire che il virus si diffonda ulteriormente nella regione. Ebola uccide, ma la disinformazione e le credenze errate possono mettere a repentaglio ancora più vite umane».
Come spiega Fabio Friscia di Unicef «la cosa che in realtà sta causando il problema più grande è il comportamento della popolazione». La maggioranza crede che Ebola, più che una malattia, sia una realtà spirituale o una maledizione. Un fatto non da sottovalutare che ne fa un’emergenza culturale altrettanto grave, per tutto ciò che comporta, oltreché di salute pubblica.